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POTENZA – «Un delitto d’impeto, conseguito a una lite e forse a una colluttazione», con qualcuno che si trovava lì per altro. Non certo l’omicidio premeditato per cui è finito a processo il figlio Domenico, che peraltro è riuscito a fornire un alibi che «non può ritenersi sicuramente falso».

E’ quello che sostiene il collegio presieduto da Aldo Gubitosi nelle motivazioni della sentenza di assoluzione per il 53enne di Senise, accusato della morte del padre Egidio, il 30 settembre del 2001.

I giudici che a maggio hanno respinto la richiesta di ergastolo avanzata in aula nei suoi confronti in 38 pagine evidenziano una serie di dubbi sulla “deriva” di un’indagine che dalle prime ore si è mossa in un’unica direzione.
«Non sono sembrati particolarmente approfonditi – spiegano i 3 magistrati – gli accertamenti eseguiti dai carabinieri su quello che Francesco De Fina (fratello di Domenico, ndr) fece nelle ore in cui verosimilmente il padre veniva ucciso (…) Analogamente, nessuna indagine sembra essere stata svolta per stabilire dove si trovasse la Abalsamo (Antonia, madre dei due fratelli e moglie della vittima, ndr) nelle prime ore del pomeriggio del 30 settembre 2001».

Il collegio evidenzia che a differenza del quadretto familiare idilliaco descritto da entrambi, a parte per le intemperanze di Domenico: «almeno in una occasione e cioé fino a quando Egidio De Fina allontanç il figlio Francesco da un locale di sua proprietà in cui il giovane esercitava la vendita di frutta e verdura, i rapporti tra i due subirono un significativo deterioramento»
Denunciano l’ingresso tardivo sulla scena di un testimone molto strano, che avrebbe raccontato di aver visto Domenico sul luogo del delitto proprio nell’ora della morte stimata dal medico legale, quando ormai il dato «doveva essere a conoscenza quantomeno dei suoi stretti congiunti, oltre che degli inquirenti».
Poi sottolineano le «stridenti contraddizioni» tra le dichiarazioni della madre di Domanico «e quanto risulta da dichiarazioni di altri testi».
Elencano i loro dubbi in formula interrogativa, in particolare a proposito del primo rinvenimento del corpo, quando la donna ha raccontato di non essersi accorta del sangue e di aver pensato a uno svenimento assieme al cugino che l’accompagnava.
«Possono effettivamente i due non aver visto che De Fina giaceva al suolo accanto a una vasta chiazza di sangue, ben evidente nelle foto allegate al fascicolo? «Perché non venne accesa la luce dell’abitazione? Perché, pur avendo contattato la moglie del Milione (il cugino, ndr), infermiera in servizio all’ospedale di Chiaromonte, non venne chiesto a costei di far accorrere un’ambulanza, ma si preferì tornare nel centro abitato per chiamarne una?»
Il collegio arriva persino a dubitare che un’ambulanza sia stata effettivamente chiamata, perché «per quanto risulta dagli atti» non sarebbe andata così.
Di qui l’invio del verbale con l’interrogatorio della donna in Procura, a Lagonegro, perché si valutino profili di falsa testimonianza nei suoi confronti.
«Ulteriori sospetti di falsità – proseguono i magistrati – riguardano poi le dichiarazioni della Abalsamo nella parte in cui descrive i rapporti tra lei il marito e tra questi e il figlio Francesco, nonché quando racconta dei presunti tentativi di avvelenamento ai danni del coniuge».
La donna aveva accusato Domenico anche di aver messo tempo prima delle sostanze nel cibo del marito. Ma per il collegio del Tribunale di Potenza «sembra più conforme alla logica pensare che il presunto “avvelenatore” sia un soggetto che aveva la libera disponibilità dei luoghi». Mentre Domenico non avrebbe avuto le chiavi né della casa in paese, né di quella in campagna.
«L’imputato – concludono a proposito del movente – dopo la morte del padre, non manifestò, come ci si sarebbe aspettato, un frettoloso interesse per la divisione dell’eredità, interesse invece svelato dalla madre, Antonia Abalsamo, che iniziò un giudizio di divisione dei beni».

l.amato@luedi.it

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