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POTENZA – Ha cercato fino all’ultimo di depistare le indagini “faccia d’angelo” Cosentino. Lui che ha ordinato la morte di uno qualunque del clan rivale, purché fosse un esponente di rilievo, solo per dare un segnale della nascita della “famiglia basilisca”. A riprova di come, a distanza di 17 anni, fosse ancora in grado di inquinare il lavoro degli investigatori.

E’ quello che sostiene il gip di Salerno Maria Zambrano nell’ordinanza di misure cautelari eseguita tra martedì e mercoledì mattina nei confronti di Gino Cosentino, e due dei maggiorenti della “quinta mafia”: Saverio Riviezzi, il 50enne di Pignola considerato il boss dell’ultima ‘ndrina operante nel potentino; e Carmine Campanella, 39enne di Potenza tra i più vicini ad Antonio Cossidente, il boss pentito della calciopoli rossoblù, e delle relazioni pericolose nei palazzi del potere.

Sono tutti accusati del duplice omicidio dei coniugi Gianfredi, Pinuccio e Patrizia, trucidati in via Livorno, in un quartiere residenziale del capoluogo, il 29 aprile del 1997. A inchiodarli sui sedili della loro Bmw, mentre tornavano a casa con le pizze assieme ai figli sistemati sui sedili posteriori, e rimasti illesi soltanto per miracolo, è stato un gruppo di fuoco composto da due uomini, armati di pistola e fucile a canne mozze.

Per gli inquirenti della Dda di Salerno si tratta di Alessandro D’Amato, 43enne melfitano che a luglio del 2010 ha confessato ed è diventato collaboratore di giustizia, e Claudio Lisanti, potentino deceduto a gennaio del 2013 all’età di 54 anni.

A effettuare gli appostamenti sarebbe stato Carmine Campanella, mentre i mandanti andrebbero cercati tra i vertici del nuovo clan: in primis Cosentino, e poi Cossidente e Riviezzi, nel ruolo di organizzatori.

Il perché di 17 anni di mistero per arrivare a far luce sull’accaduto lo spiega bene il gip Zam brano, per cui «dalla lettura degli atti emerge con evidenza come la individuazione degli autori dell’efferato omicidio non sia stata possibile (…) fino alla confessione di due persone che avevano concretamente partecipato al delitto (D’Amato e Cossidente) (…) a causa, tra l’altro di continui tentativi di fuorviare le indagini e di indicazioni di piste poi rivelatisi sterili, operazioni la cui regia a volte e rimasta oscura ma in un caso  stata riconducibile allo stesso Cosentino (si pensi alle dichiarazioni che avevano sostenuto l’ultima richiesta cautelare, poi rigettata, inoltrata dalla Procura di Salerno)».

Il riferimento è al fascicolo aperto nel 2008, e chiuso pochi mesi prima della confessione di D’Amato, sulla base delle accuse del fondatore della famiglia basilisca, a sua volta collaboratore di giustizia da settembre del 2007 fino a maggio dell’anno scorso quando il regime speciale di protezione gli è stato revocato a serie di una serie di infrazioni del regolamento dei pentiti.

«Dichiarazioni imprecise e prive di sufficienti riscontri estrinseci». Le sue. Secondo il gip Zambrano, per cui sarebbero «inidonee» a comprovarle quelle di altri due collaboratori di giustizia, Michele Danese, «che aveva riferito una fugace confidenza di Franco Rufrano di essere stato lasciato solo nel corso dell’attentato ai Gianfredi», e «di Donato Caggiano, «che in realtà aveva riferito solo di sue congetture». Oltre che del “toro di Gravina” Vincenzo Di Cecca, «già considerato inattendibile dalla Corte d’assise di Salerno».

Ben altro peso andrebbe invece attribuito alle ammissioni di D’Amato e Cossidente, le prime in una vicenda su cui «si sono susseguite dichiarazioni accusatorie, confidenze, congetture, dichiarazioni de relato, ma mai confessioni».

Tanto più che Cosentino non solo non aveva mai parlato del suo ruolo pur attribuendo le responsabilità del fattaccio al suo «colonnello» Cossidente, ma ha sempre negato anche di aver commissionato l’attentato a Danese sei mesi prima dell’agguato di Parco Aurora. Un attentato che anche nelle motivazioni della sentenza d’appello del maxi-processo “basilischi” viene rappresentato come una vendetta per il mancato sfregio della sorella della vittima, che altri non era che la sua compagna, e l’aveva tradito con un altro.

Le dichiarazioni dell’ex camionista melfitano, in particolare, vengono giudicate dai magistrati di Salerno «sostanzialmente univoche e coerenti tra loro», dato che «nelle stesse il collaboratore ricostruisce i particolari relativi all’esecuzione con plastica precisione e con una dovizia di particolari che solo chi ha partecipato materialmente all’azione può offrire».

Quanto alle imprecisioni al lro interno il gip spiega che «considerato il tempo trascorso dall’attentato, l’assoluta certezza del dichiarante in ordine a tutti i particolari della vicenda sarebbe stata sospetta; mentre è più che comprensibile che il D’Amato abbia fissato nella sua mente la sera dell’omicidio mentre nella sua memoria alcuni dati organizzativi e preliminari , da lui non deliberati, si siano sbiaditi nel tempo».

Anche quanto alle dichiarazioni di Cossidente da Salerno parlano di «piccole incongruenze sicuramente giustificabili», al massimo di «attendibilità frazionata». Specie sul ruolo di Riviezzi, che all’inizio aveva escluso dal novero dei mandanti, salvo recuperarlo in un secondo verbale in linea con quanto affermato in precedenza da D’Amato.

«L’iniziale reticenza sul ruolo del Riviezzi – spiega il gip – potrebbe essere stata motivata dalla volontà (comprensibile, nella fase iniziale della collaborazione, nella mentalità criminale “classica” dei componenti del gruppo basilischi) di non rivelare che aveva fatto parte del comitato decisionale che aveva organizzato, su indicazione del Cosentino, l’omicidio, anche un soggetto battezzato con “copiata” irregolare».

In pratica Riviezzi era stato affiliato da un “amico” calabrese come appartenente al clan Cossidente, quando il boss era ancora Cosentino e non avrebbe gradito per nulla questa cosa, congelando la sua posizione fin quando non si fosse rimediato come poi è avvenuto dopo il duplice omicidio.

1/continua

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