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CATANZARO – Si è concluso con la pena dell’ergastolo sostituita con una condanna a trenta anni di reclusione il giudizio di secondo grado a carico di Leo Russelli, presunto boss di Papanice (Kr) accusato dell’omicidio di Luca Megna, assassinato il 22 marzo 2008, e del tentato omicidio della moglie e della figlia della vittima. I giudici della Corte d’assise d’appello hanno escluso per l’imputato, difeso dagli avvocati Gianni Russano e Giuseppe Schinelli, l’aggravante dei motivi abbietti, ed hanno anche revocato per Russelli la pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale. La sentenza di primo grado fu emessa il 5 luglio del 2011 dal giudice dell’udienza preliminare distrettuale di Catanzaro, Emma Sonni, al termine del giudizio abbreviato. Il gup all’epoca accolse pienamente la richiesta fatta dal pubblico ministero Salvatore Curcio che in sede d’appello, in veste di sostituto procuratore generale, aveva chiesto la conferma di quella prima decisione. Lo stesso giorno in cui Russelli fu condannato all’ergastolo il gup sentenziò anche undici patteggiamenti e rinviò a giudizio altre cinque persone, tutte coinvolte con l’accusa di favoreggiamento di Russelli nella medesima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro battezzata «Cape fear». Invece Russelli, presunto boss scissionista dell’omonima cosca conosciuta anche come quella dei «Papaniciari», fu riconosciuto colpevole dell’agguato di Pasqua 2008 consumatosi con l’assassinio di Luca Megna, figlio del boss Domenico, secondo l’accusa in risposta ad un attentato da cui qualche mese prima il primo era uscito miracolosamente indenne. L’agguato diede vita ad una sanguinosa faida per il controllo della zona di Papanice. Russelli finì in manette nel luglio del 2008, anche se inizialmente non gli fu contestata l’accusa dell’omicidio Megna, sulla base di un provvedimento di fermo emesso dagli allora sostituti procuratori della Dda di Catanzaro Sandro dolce e Pierpaolo Bruni, ed eseguito in un casolare di Imola, dove l’uomo si nascondeva assieme a moglie e due figli piccoli grazie alle numerose coperture di svariati fiancheggiatori. Il trauma al ginocchio che l’uomo presentava, fu spiegato dagli inquirenti, era perfettamente compatibile con la ferita che riportò uno dei componenti del commando che uccise Megna, investito da quest’ultimo con la Fiat Panda a bordo della quale viaggiava con moglie e figlia dopo i primi colpi sparati dai killer e prima di morire. 

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