X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

POTENZA – «Una costante, insidiosa e allarmante attività di inquinamento
probatorio». L’ex direttore dell’Arpab godrebbe ancora «della possibilità
di avvalersi di canali istituzionali o di avvocati aventi col medesimo
affinità di carattere politico, i quali grazie al suo intervento sono
riusciti e riescono tutt’ora ad ottenere consulenze da parte dell’Arpab e
della Regione Basilicata». Per il gip Tiziana Petrocelli esiste «un canale
di fuga di notizie riservate che interessa tutto il presente procedimento».
D’altra parte l’indagine è ancora «in pieno svolgimento». L’unico modo che resta per capire fino in fondo «il livello di condivisione delle responsabilità»
all’interno di Fenice, ma non solo, è arrestare Vincenzo Sigillito e il
coordinatore provinciale dell’Agenzia regionale per la protezione
dell’Ambiente, Bruno Bove.
È scattato ieri mattina il blitz dei militari del reparto operativo
provinciale e del nucleo operativo ecologico dei carabinieri. Oltre alle
due ordinanze di arresti domiciliari sono stati sospesi dalle loro funzioni
due manager di punta di Edf-Fenice spa, società che gestisce il
termovalorizzatore di San Nicola di Melfi: Marco Maritano e Giovanni De
Paoli, entrambi residenti a Torino.
Le accuse sono molto pesanti: si parla di disastro ambientale, truffa,
falso ideologico, omissione di atti ufficio e rivelazione di segreti. Gli
indagati in tutto sono 14 e tra questi figurano gli attuali responsabili
dell’Ufficio compatibilità ambientale della Regione e della Provincia, più un ex di altissimo livello che oggi dirigedell’Ufficio programmazione e controllo di gestione della giunta. Per Franco Pesce, già responsabile del “Piano regionale
rifiuti” la procura aveva chiesto la sospensione, ma dato il nuovo incarico
il gip non ha riscontrato le esigenze di una misura nei suoi confronti.
Salvatore Lambiase e Domenico Antonio Santoro, dell’Ufficio
compatibilità ambientale della Regione e dell’Ufficio ambiente della Provincia, sono accusati di omissione di atti d’ufficio perchè davanti alla fatidica comunicazione da parte di Fenice, che si autodenunciava per l’inquinamento della falda a marzo del 2009, avevano il potere e il dovere di spegnere i due forni dell’inceneritore fino a quando non fossero stati verificati i dati e la situazione non fosse tornata alla normalità. Invece non avrebbero fatto niente.
Per Sigillito, Bruno Bove, Ferruccio Frittella, un tempo responsabile
dell’Arpab di Matera, Vincenzo Di Croce dell’ufficio monitoraggio ambientale, Franco Pesce e i manager di Fenice che si sono avvicendati dal 2001 a oggi l’ipotesi della Procura è disastro ambientale colposo per la mancata attivazione del Piano di monitoraggio ambientale del Melfese, concordato tra la società e la Regione prima ancora dell’entrata in funzione del termovalorizzatore. Inoltre non avrebbero comunicato i dati sul «grave e pericoloso inquinamento in atto per la presenza di metalli pesanti» sostanze cangerogene nella falda acquifera sottostante, mettendo a rischio la pubblica incolumità.
Gli stessi dieci sono accusati anche di truffa ai danni della Regione e
dei comuni che per tutti questi anni hanno portato rifiuti nel termovalorizzatore di Melfi. Imboscando i dati sulle schifezze finite nella
falda avrebbero procurato un profitto ingiusto a Fenice spa. In sostanza le
amministrazioni hanno pagato fior di quattrini perchè erano convinte di
smaltire i propri rifiuti nella maniera più ecologica possibile, mentre in
realtà le cose sarebbero state molto diverse. I cittadini hanno visto
salire il costo della Tarsu e si sono messi l’anima in pace credendo che
quei soldi servissero a tutela dell’ambiente, invece tra metalli pesanti e
inquinanti vari c’è chi ha rischiato di beccarsi un tumore.
Tra gli atti dell’inchiesta condotta dal pm Salvatore Colella, che si è
avvalso degli uomini del reparto operativo al comando del capitano Antonio
Milone, e del nucleo operativo ecologico al comando del capitano Luigi
Vaglio, ci sono documenti sconcertanti.
«L’inquinamento da clorurati (sostanze cancerogene a certe condizioni,ndr) risale a molti anni prima». Chi scrive è il professore Francesco Fracassi, docente all’Università di Bari e superconsulente della Procura di Potenza, che ha studiato le analisi della falda e le comunicazioni del gestore dell’impianto che è accusato di essersi auto-denunciato come previsto dalla legge con anni di ritardo. «I responsabili di Fenice ne erano a conoscenza sin dal 2000». Di piu: «In queste condizioni anche il tecnico più sprovveduto avrebbe approfondito
l’indagine partendo, ovviamente dall’esame dei dati». Il superconsulente
denuncia che fino a luglio del 2007 Fenice avrebbe spacciato dei numeri
grezzi e agglomerati senza specificare il tipo di composti clorurati
presenti. Un trucco per rientrare nelle soglie. «Quando finalmente nei
referti sono stati riportati anche i singoli composti tutti i pozzi hanno
mostrato il superamento dei limiti di legge». Poi ci sono i metalli
pesanti. «Si nota – aggiunge il professore – un superamento della soglia di
contaminazione da Nichel (un metallo pesante, ndr) già a a partire da
gennaio del 1999, quando l’impianto non era ancora stato avviato in quanto
la prima introduzione di rifiuti risale al 13 novembre del 1999». Cause
naturali? Fracassi non può escludere questa possibilità ma registra che da
marzo 2002, con l’impianto a pieno regime «la contaminazione diventa molto
più diffusa ed elevata».
Insomma una bomba che aspettava di esplodere da un momento all’altro,
amplificata dall’attenzione di media e cittadini tanto che gli
investigatori hanno attribuito alle pressioni quotidiane sul caso anche un
clamoroso passo falso dei due finiti agli arresti domiciliari, Sigillito e
Bove. Per farla franca sviando il corso delle indagini, secondo gli
inquirenti avrebbero presentato una denuncia alle procure di Melfi e
Potenza zeppa di cose letteralmente inventate, come che il monitoraggio
delle acque non fosse stato affidato all’ufficio di Bove, che dalle
analisi non si evidenziasse il superamento delle soglie previste dalla
legge, che non ci fossero mai state comunicazioni alla Regione quando
almeno nel 2007 quei dati erano stati spediti all’Ufficio compatibilità ambientale, e che soltanto nel 2008 – con l’arrivo di Bruno Bove – si è scoperto l’inquinamento mentre invece era noto dal 2002. Infine che Vincenzo Sigillito fosse a conoscenza solo da ottobre del 2009 della mancata attivazione del piano di monitoraggio dell’inceneritore. Tra i capi d’imputazione vagliati dal gip Tiziana Petrocelli mancano solo due lunghi “omissis”. Sono filoni d’indagine stralciati dall’inchiesta principale e non è detto che nei prossimi giorni non arrivino nuovi clamorosi colpi di scena.
leo amato
l.amato@luedi.it

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE