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NON era il solito intervento, e chi è arrivato dopo 5 ore, per il cambio turno, se n’è accorto subito. I chirurghi insistevano nel tentativo di fermare «una condizione di diffusa perdita ematica». La paziente era in pessime condizioni. Eppure si è deciso lo stesso di completare l’operazione, ricucire la paziente e portarla in terapia intensiva. Lì però nessuna l’ha mai presa in carico. D’altronde in quello stato l’arresto cardiaco appariva imminente, e di fatto in meno di un quarto d’ora è sopraggiunta la morte.
Tra le testimonianze chiave sul caso di Elisa Presta c’è anche quella di Eugenia Lasorella, anestesista che anche ai responsabili dell’indagine interna avviata dal San Carlo (dopo la diffusione delle registrazioni shock tra i colleghi di Cardiochirugia) non ha nascosto le sue perplessità sull’accaduto.
Il gip Amerigo Palma nell’ordinanza di misure cautelari nei confronti del primario del reparto di Cardiochirurgia Marraudino, e dei medici Cavone e Galatti, evidenzia alcune difformità in queste dichiarazioni rispetto a quelle rese davanti alla polizia. Ma soltanto sull’ultima parte del suo racconto, mentre la prima resta identica e già molto significativa.
Subentrata a un collega che smontava dal turno mattutino, la dottoressa Lasorella si sarebbe resa subito conto che la paziente versava in una condizione clinica «molto grave, in quanto la stessa si presentava in uno stato di shock cardiogeno conclamato, in midriasi, con acidosi metabolica, anurica e con perdita significativa di sangue ancora perdurante pur a fronte della continua infusione di sangue e plasma. Presentava, inoltre, un volto edematoso ed una condizione di verosimile sofferenza neurologica».
«In buona sostanza» la sua partecipazione professionale al tavolo operatorio avrebbe assunto subito caratteri diversi da quelli di un classico «intervento anestesiologico». Molto più consono a un intervento «di tipo rianimatorio.
«La sua prestazione assistenziale è perdurata in sala operatoria per circa due ore/due ore e venti – prosegue la relazione dei commissari interni dell’azienda ospedaliera – nel mentre l’equipe chirurgica continuava a praticare emostasi, tentando di fronteggiare una condizione di diffusa perdita ematica, attendibile espressione di una coagulopatia da consumo».
Il trapianto di valvola aortica previsto era stato completato come se niente fosse, e resisteva «una sia pur minima attività cardiaca spontanea (…) anche se con brachicardia e ipotensione». Quindi i cardiochirughi avrebbero deciso di trasferire la paziente in Terapia intensiva d’intesa con il direttore del reparto: «per assicurare il necessario rispetto nei confronti della paziente e dei suoi familiari».
Ma qui cominciano le contraddizione nel racconto della dottoressa, che una volta arrivata lì avrebbe proseguito le manovre rianimatorie da sola per altri «dieci-quindici minuti», perché il collega in servizio sarebbe stato «già impegnato in un’attività d’urgenza».
In più ha spiegato che «apparendo le condizioni della parente ormai critiche e l’arresto cardiaco imminente (…) non si formalizzò sul piano meramente amministrativo il trasferimento della paziente in terapia intensiva, assolvendo le incombenze di certificazione per le finalità necroscopiche il chirurgo operatore».
«Risulta – conclude la commissione ispettiva regionale che ha ripreso i risultati dell’indagine interna – che alle ore 16.35 avviene la chiusura della cute con conseguente trasferimento della paziente in terapia intensiva post operatoria. A causa delle condizioni emodinamiche instabili, come peraltro riportato nel registro operatorio, dopo circa 15 minuti avviene il decesso, alle ore 17, per arresto cardiocircolatorio irreversibile».

l.amato@luedi.it

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