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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
I giornali non hanno dato adeguato risalto all’ultimo rapporto annuale del Censis riguardante il divario nord-sud in materia di sanità. L’analisi, giunta alla quarantunesima edizione, parte dall’esigenza di rendere disponibile uno strumento di analisi e di interpretazione dei fenomeni, dei processi, delle tensioni e dei bisogni sociali emergenti. Il quadro che emerge pone in risalto un gradiente negativo nord-sud, con un tendenziale peggioramento della situazione della salute dei cittadini residenti man mano che si procede verso le regioni meridionali. Si tratta di un peggioramento ampiamente legato al diverso contesto socioeconomico. “La vecchia dicotomia nord-sud in cui si riscrive un Meridione caratterizzato da una popolazione più giovane e quindi tendenzialmente più sana, nonostante un livello di offerta meno soddisfacente, a fronte di un centro-nord in cui la variabile etno-demografica pesa in modo decisivo appare sostanzialmente superata”. E acquistano peso altre determinanti, legate ad esempio alla prevenzione più diffusa al nord ed emerge il peso della crescente omologazione del Meridione rispetto a stili di vita a rischio e problemi di impatto ambientale finora appannaggio delle aree settentrionali. A Palermo una clinica taglia le cure ai malati di tumore perché troppo costose; nel Lazio si sospende l’erogazione di medicine ai malati di diabete per contrasti tra Federfarma di Roma e Lazio e Regione. Siamo solo agli inizi: notizie simili diverranno sempre più frequenti a contrasto di conquiste sociali ispirate alla solidarietà con chi ha più bisogno. Il sempre maggiore peso del mercato sulla politica, che ne risulta quindi radicalmente condizionata, ribalta il rapporto che questa – essenzialmente tesa al bene collettivo della comunità nazionale – dovrebbe avere sull’economia, sul mercato. Occorrerebbe riflettere sulla differenza tra economia politica e politica economica, ma una società regge quando la classe dirigente richiede e attua una politica economica preoccupata essenzialmente del bene di tutti i cittadini. I valori della solidarietà, del mutuo appoggio sembrano sempre più sfumati, mentre l’imperativo categorico è business is business. Continua così l’irresponsabilità delle classi dirigenti nazionali e regionali immemori delle voci di protesta, delle invettive che già dall’Ottocento si levarono a favore degli ultimi, dei muti della storia. L’abate Vincenzo Padula nei suoi articoli sullo stato delle persone in Calabria pubblicati su “Il Bruzio” a metà degli anni Sessanta dell’Ottocento sottolineava le miserrime condizioni delle articolazioni del mondo popolare della sua terra, proclamando la seguente invettiva: “Proseguite pure, miei bei Signori calabresi, a far così inumano governo della povera gente; e poi gridate che ne avete ben d’onde che vi siano briganti i quali vi sequestrino”. Nei canti popolari vi sono miseria e bellezza; occorre che la miseria cessi e la bellezza resti; così scriveva Padula esaminando la vastissima cultura folklorica della nostra regione; del resto, lo stesso abate aveva invitato a non adorare il Cristo di legno presente in tutte le chiese, ma il Cristo di carne che era il bracciante della sua terra. Questo atteggiamento può fornire un’indicazione essenziale per comprendere le ragioni di una “fortuna” che colpì le opere di Vincenzo Padula, per lo più misconosciuto nonostante la lucidità del suo sguardo e il vigore della sua opera. In essa vi è indubbiamente un’attenzione profonda verso la cultura popolare calabrese, ma uguale attenzione è rivolta alle condizioni economico-sociali degli strati popolari, alle loro miserrime condizioni di vita. Non si tratta soltanto di un atteggiamento intellettuale che vede come le formazioni culturali siano da rapportare a quelle sociali, connessione quasi sempre ignorata dagli studi antropologici, persino da quelli contemporanei: si pensi, e non è che un esempio, a quanta antropologia statunitense novecentesca tenda a spiegare la cultura con la cultura. In Padula vi è una prospettiva politica finalizzata all’eliminazione della miseria. Bisognerà attendere altre epoche perché una prospettiva siffatta sia affermata con decisione in ambito antropologico, e il pensiero va immediatamente a Ernesto de Martino e alla sua collera quando attraversa il quartiere della Rabata di Tricarico, immagine del caos. Da qui nasce la collera dell’etnologo, la sua scelta di operare per il concreto riscatto di persone costrette a vivere come bestie in tane immonde. Non si vuole proporre l’immagine di un Padula rivoluzionario e si è consapevoli che la polemica politica dell’abate trovava una sponda istituzionale nel prefetto di Cosenza del tempo, che rese possibile, di fatto, la pubblicazione di “Il Bruzio”. Si vuole più fondatamente sostenere che Vincenzo Padula, già a metà del secolo XIX, riteneva inadeguata l’analisi del mero dato culturale, senza che venisse indagato anche il suo contesto specifico. Non si tratta soltanto di una ripresa dei brani evangelici nei quali il Messia propone l’identificazione con “il più piccolo dei fratelli”, con l’affamato, l’assetato, con l’ultimo. Certo, già riprendere tale aspetto evangelico ha un valore eversivo nei confronti del potere che, d’altronde, la Chiesa non ha testimoniato in maniera costante nella sua storia plurimillenaria. In Padula vi è un privilegiamento del Cristo di carne, il bracciante, rispetto al Cristo della liturgia ufficiale. Si tratta di un atteggiamento che supera il pur cauto riformismo dello stesso Padula. L’aspetto innovativo dell’attenzione demoantropologica di Padula riguarda anche la sua maniera di considerare il mondo popolare. Questo non è assunto come un blocco monolitico, inalterabile nella sua astorica fissità. Viene visto, invece, nelle sue numerose articolazioni: massari, mezzadri, braccianti, bifolchi, giumentieri, pastori, caprari e vaccari; bufalieri e vignaioli; ortolani; giardinieri, intraprenditori e fattoiani; linaiuoli; concari; passatori e pescatori; guardiani; marinari; mulattieri, lettieri, vetturini, calessieri e carrettieri; mugnai vengono descritti con estremo senso realistico, con specifica attenzione alle modalità culturali che li caratterizzano, all’abbigliamento, alle pratiche di vita, alle ingiurie. Non meraviglia come l’opera rivoluzionaria di Padula sia stata sostanzialmente ignorata dalla demoantropologia ufficiale. È sempre questo “il destino” storico di studiosi la cui opera innova di fatto l’ambito nel quale pure ha tutto il diritto di essere inserita. La loro dimensione ereticale sollecita un tentativo di espulsione dai confini di quella partizione scientifica, sui quali si vigila accigliati come burbere guardie di frontiera. È avvenuto per Padula, è avvenuto per Ernesto de Martino, è avvenuto per Antonio Pigliaru e gli esempi potrebbero continuare a lungo. Anche per questo mi sembra iniziativa quanto mai opportuna la riedizione di “Il Bruzio”, a cura della Fondazione “Vincenzo Padula” presieduta da Giuseppe Cristofaro e che verrà presentata ad Acri ai primi di novembre, omaggio a una figura caratterizzata da libertà intellettuale e di atteggiamento in radicale contrasto con il suo ambiente circostante. È tale libertà di pensiero, è l’accettazione di qualsiasi avventura intellettuale dovunque essa possa condurre che rendono la figura di Vincenzo Padula degna di una sempre rinnovata attenzione, punto di riferimento per chiunque ritenga il pensiero critico bene irrinunciabile, meta atta a inverare la vita conferendole senso.

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