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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Domenica scorsa oltre un milione di pellegrini sono giunti a Roma per la cerimonia della beatificazione di Giovanni Paolo II, il Papa che rimane scolpito nella memoria dei fedeli di tutto il mondo per il suo ecumenismo, per la sua capacità di entrare in sintonia con ciascuno e con tutti. Chi in questi giorni ha girato per Piazza San Pietro, ha potuto agevolmente constatare che accanto a numerosi gruppi di fedeli che parlavano l’italiano si ponevano pellegrini – ed erano la massima parte – che parlavano tante altre lingue. Segno netto dell’internazionalizzazione della Chiesa. Una internazionalizzazione che contribuisce decisivamente a rendere l’Italia oggetto dell’interesse, meta di viaggi da parte di persone di tutti i Paesi. In maniera analoga, notevole attrazione esercitano i monumenti e altri beni storico-artistici e paesaggistici disseminati nel nostro territorio: Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Pompei, Capri, la Sicilia tutta e così via. Siamo troppo presi dalla pur fondata polemica sui nostri vizi, sulla nostra sostanziale inaffidabilità, sulla corruzione e in ogni caso sulla mediocrità e inadeguatezza del nostro ceto politico, per guardare anche a questi aspetti. Preferiamo, dunque, guardare al “bicchiere mezzo vuoto” rispetto al discorso, anch’esso veritiero, del “bicchiere mezzo pieno”. Il milione e oltre di pellegrini di domenica scorsa a Roma, testimonia anche altro. L’evento di domenica è stato l’occasione perché filmati, libri, documentari, trasmissioni, servizi giornalistico-spettacolari non privi, spesso, di banalità e di retorica inondassero librerie e televisioni, nello sfruttamento esasperato dell’aspetto mediatico dell’evento. Il sangue estratto dal suo corpo, nel suo ultimo ricovero ospedaliero, per essere pronti a eventuali trasfusioni è divenuto nucleo centrale della “reliquia del Papa”, annunciata con enfasi eccessiva e sostanzialmente irrispettosa. Non è qui il caso di tentare un bilancio dell’opera, protratta nel tempo e dagli effetti profondi su una molteplicità di piani, di questo Pontefice, segno di contraddizione, la cui opera comunque resterà nella storia. Preferisco riflettere in questa sede su cosa questo afflusso di moltitudini rivela, su quali bisogni esso richiama, analogamente a un altro evento mediatico che ha tentato in questa settimana di catturare prepotentemente la nostra attenzione: le nozze reali di William e Kate nel Regno Unito. Come è stato notato, “solo la luce della televisione e l’ombra delle misure anti-terrorismo rimangono a rappresentare la nostra modernità estenuata in questo stupefacente doppio ritorno al Santo e al Principe a Roma e a Londra, capitali gemelle del mondo che si ricovera nell’antichità, luoghi magici dove l’umanità, per uscire dalla storia, si rifugia nei miti, nei riti, nella liturgia. C’è insomma tutta la stanchezza della terra che trova un momento di pace e si concede una tregua nello sfarzo delle carrozze dorate tirate dai cavalli e nella coralità delle porpore cardinalizie e delle vesti nere al di fuori dal tempo angustiato di Fukushima e dei tornado, dei kamikaze a Marrakesh e delle bombe della democrazia. [.] Londra e Roma, vale a dire le sedi degli imperi più vasti e forse più antichi della storia, sono state restituite alle cerimonie, ai protocolli e alle etichette più inattuali e tuttavia più allegre e popolari, e non solo perché non c’è nulla di più inattuale dell’allegria, ma anche perché quando meno te lo aspetti i miti sovrastorici ritornano, si infilano nel cappellino giallo della regina e nella simpatia di un gruppo di suorine che avanzano trattenendo con le mani i cappucci bianchi e neri agitati dal vento di via della Conciliazione come nella Roma di Fellini” (Francesco Merlo, La Repubblica, 30 aprile 2011). Troppo familisticamente abbiamo ritenuto di sbarazzarci dei miti, quasi fossero residui di epoche definitivamente superate, forme inattuali e inadeguate rispetto alle esigenze del presente. I miti, scacciati dalla porta, rientrano dalla finestra, affermando una vitalità inaspettata e la necessità di esse per l’ancoraggio psicologico, spirituale e culturale degli uomini. A Roma, durante l’anno, percepiamo più i disagi arrecati dai raduni dei devoti in Vaticano (le strade intasate dal traffico nei giorni delle udienze generali settimanali e fenomeni analoghi), che l’apporto positivo della collocazione nella Città Eterna della sede del Papato, causa, tra l’altro, di un’invasiva presenza nelle vicende della politica italiana, che ne subisce comunque pesanti condizionamenti. Vi è una miopia da vicinanza che rischia di ottundere il nostro sguardo. La tendenza a ritornare al passato per trovarvi rifugio, rassicurazione e certezze smarrite è tanto più forte quanto maggiori sono l’angoscia del presente, il senso di precarietà che esso comunica, l’assenza di prospettive che in qualche modo garantiscano la progettualità individuale e collettiva. Non è un caso che sul bisogno di sicurezza si sviluppino tante strumentalizzazioni politiche, tanta cinica enfatizzazione di pericoli finalizzata a realizzare vantaggi elettoralistici. Uno dei tratti che caratterizza la realtà contemporanea è la precarietà con la inquietudine che da essa scaturisce. Tale inquietudine può svolgersi in direzione regressiva, potenziare quella tendenza al rifugio nel passato di cui ho appena scritto. L’inquietudine può svolgersi, però, anche in direzione progressiva, spingerci all’apertura all’altro, alla ricerca dell’incontro, nella consapevolezza che esso comunque ci arricchisce, ci sollecita a una dimensione dialogica, paritetica, che è la base di ogni convivenza civile e amorevole. L’evento di domenica scorsa rivela anche un bisogno di santità, che vuol dire bisogno di dare agli altri, il coraggio di affermare, il proprio amore, la propria, pur nel rispetto assoluto di tutti gli altri, verità. La cerimonia di Beatificazione di Giovanni Paolo II è stata oggettivamente l’esaltazione della Chiesa, del papato, ma è stata anche esaltazione dell’uomo, della sua umana compartecipazione, della sua altissima capacità comunicativa, del suo amore comunicato con semplice profondità. Innumerevoli testimonianze di persone che lo hanno incontrato, nei più diversi contesti e occasioni, sottolineano queste caratteristiche. Alle tante testimonianze aggiungo sommessamente la mia. Ho avuto la fortuna di incontrare direttamente Giovanni Paolo II più volte, a Betlemme, a Gerusalemme, a Roma. Nella mia qualità di vicepresidente del Comitato italiano dei parlamentari per il Giubileo, mi recai con i colleghi a Betlemme, dove il Papa, in visita in Terra Santa, celebrava la messa. In quell’occasione gli venimmo presentati ed egli ebbe per ognuno di noi espressioni sollecite e affettuose; lo stesso avvenne a Gerusalemme, dove assistemmo alla Messa da lui officiata nel Tempio dove celebravano i propri riti le diverse confessioni cristiane. A Roma il nostro Comitato parlamentare offrì al Papa un concerto che si tenne alla sua presenza nella Sala Nervi. Infine, partecipammo, in un settore riservato, alla messa che si tenne solennemente in Piazza San Pietro, partecipando anche direttamente al rito della comunione dispensata da Giovanni Paolo II. In tali occasioni fui colpito dallo sguardo che andava in profondità e affettuosamente sorridente di Giovanni Paolo II e spontaneamente emersero in me parole di sollecitudine, di affetto nei suoi confronti per quanto andava facendo. Ho constatato direttamente quanto la sua personalità colpisse profondamente, come il suo invito a non aver paura, ad affrontare con coraggio l’amore, la verità, potesse essere accolto non tanto attraverso una mediazione intellettuale, quanto con una reale compartecipazione umana. Personalmente è questo ciò che permane in me dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, da domenica scorsa proclamato Beato, comunque grandissimo protagonista del nostro tempo.

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