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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Una tragica macchietta che, asserragliata nel suo bunker, urla dalla televisione minacce e accuse, promettendo sangue e rovine al suo popolo che non ha mai amato, ma che ha dominato ferocemente per oltre quarant’anni. L’ultima immagine di Gheddafi si delinea con questi tragici e grotteschi contorni, che segnalano l’assoluta solitudine del tiranno. Vengono smentite così concretamente le caratteristiche con le quali l’autoproclamatosi “leader della rivoluzione” presentava la sua grande Giamahiria araba libica popolare socialista. Altre immagini, altre figure si affollano nella memoria, che testimoniano analoga cecità, analogo destino. Nicolae Ceaucescu, Saddam Hussein, Hosni Mubara e, più dietro nel tempo, nell’inverno del 1945 Benito Mussolini proclamano vittorie e resistenze patriottiche poco prima della loro inesorabile fine politica. In nome della Realpolitik e per difendere interessi economici rilevanti si è passati sopra, persino con eccessiva disinvoltura, a feroci repressioni, disumane dittature. È questa che ha caratterizzato sostanzialmente i rapporti che i governi, del nostro e di altri Paesi, hanno stabilito con le dittature, utilizzandole o finanziandole quando faceva a essi comodo, scoprendone la minaccia per la democrazia quando occorreva legittimare azioni contro di esse, ammantandole sempre da sacri princìpi e da nobili ideali. Anche i governi di centrosinistra hanno accolto, con diplomatica cordialità e pur con uno stile più dignitoso dell’accoglienza prona di Berlusconi, Gheddafi; Massimo D’Alema, intelligente e spregiudicato leader politico, fu il primo capo di governo europeo a visitare la tenda di Gheddafi in Libia. Abbiamo migliaia di italiani in Libia e i fondi sovrani di questo Paese sono investiti in società, quali Unicredit, Fiat, Finmeccanica, Eni, Mediobanca, Juventus, Olcese, Retelit. Tali argomenti sono stati utilizzati per giustificare la nostra eccessiva discrezione, la nostra paura di “disturbare” il tiranno quando ha iniziato a far sparare al suo popolo (salvo ad accusare italiani e americani di aver fornito razzi ai rivoltosi). Anche gli altri Paesi non sono stati secondi nell’intrattenere rapporti di affari e, si è sostenuto, reciprocamente convenienti. Francia, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna hanno intrattenuto con il regime di Gheddafi sostanziosi rapporti di forniture e di accettazione delle sue richieste. Con questi riferimenti Sergio Romano, pur sottolineando che “noi, in particolare, abbiamo il diritto e il dovere di alzare la voce contro Gheddafi e i suoi metodi”, opportunamente invita a non “cogliere l’occasione per combattere una ennesima battaglia di politica interna” (“Corriere della Sera”, 23 febbraio 2011). Oltre alla folta presenza di italiani in Libia e di patti economici privilegiati, l’Italia ha infatti un passato di vicende comuni con questa nazione, carica di legami ambigui che creano un buco nero nella storia del nostro Paese. Il desiderio di onnipotenza che assalì il Duce, a emulazione delle vicende coloniali degli altri stati europei, vide l’Italia protagonista di un’avventura ventennale (1911-1931) densa di atrocità che troppo spesso e troppo a lungo si è voluto tacere. Eric Salerno, nel suo libro “Genocidio in Libia” raccolse le testimonianze orali delle stesse vittime sopravvissute, del dolore, della sofferenza, della morte, dell’ingiustizia, della violazione dei diritti umani da parte degli italiani, durante il regime fascista, verso i civili libici. Si pensi, ad esempio, ai campi di concentramento in cui furono rinchiusi circa ottantamila persone di cui sopravvisse forse solo un quarto. Centomila libici morti, su una popolazione di circa settecentocinquantamila abitanti rappresentano comunque una strage che crea un punto oscuro del nostro Novecento, ben lontana dalla nostra vicenda coloniale, quale ufficialmente si è voluta trasmettere. Anche il diritto coloniale elaborato da giuristi italiani teorizzava una disparità di trattamento tra i soggetti, a seconda che fossero italiani o indigeni, come abbiamo sottolineato con ampiezza di argomentazioni Mariano Meligrana e io in “Diritto egemone e Diritto popolare” (1975). I tragici eventi di queste settimane ci impongono, fra l’altro, una profonda riflessione sull’esperienza coloniale italiana, sulla realtà post coloniale, sulle migrazioni annunciate e temute, sul modo nuovo di presentarsi sulla scena politica mondiale delle masse, su una realtà araba non riconducibile agli stereotipi occidentali. Lo faremo quanto prima sulle pagine di questo giornale. Intanto vorrei ricordare che una testimonianza, anche se chiaramente di parte, sulla dinamica regime italiano-popolo libico, è data dal film libico “Il leone del deserto”, realizzato nel 1981 dal regista Mustafa Akkad, americano di origine siriana. In esso si narra la storia della resistenza del popolo guidata da Omar al Muktar (interpretato da Antony Queen) contro l’esercito italiano, composto prevalentemente da meridionali e da veneti (provenienti cioè dalle zone italiane più povere) al comando di Rodolfo Graziani. Omar al Muktar, un insegnante che votò la sua vita alla lotta partigiana, divenne l’eroe della resistenza, morendo impiccato. Nonostante la sua forza comunicativa, o forse proprio per essa, il film è stato censurato per tutti questi anni nel nostro Paese e soltanto lo scorso anno è stato proiettato dalla rete televisiva Sky, in coincidenza con la visita a Roma di Gheddafi. Il leader libico ha dunque goduto di un trattamento privilegiato in nome, appunto, della Realpolitik di cui ho detto, nonostante le ragioni della sua impresentabilità fossero molte e già ampiamente conosciute. È che, come ha avuto modo di osservare con la sua notissima arguzia Giulio Andreotti, non si può scegliere il vicino da abbracciare. E allora, “tutto va bene”, come recitava la canzonetta di anni lontani? Sicuramente no. Anzitutto la ferocia dei massacri del popolo, seguiti da anni di cinica noncuranza di fronte ai diritti umani sistematicamente calpestati, comporta l’abbandono di qualsiasi discrezione e cautela, più o meno rassicurante. Sicuramente no anche per un altro ordine di considerazioni. È vero che Moammar al-Gheddafi è un sanguinario dittatore, che ha preso il potere con la forza e con la forza sta tentando di mantenerlo in questi tragici giorni. Berlusconi ha un potere politico democraticamente conquistato con libere elezioni e gode comunque di un notevole consenso parlamentare e nel Paese. Le due figure, dunque, non possono essere facilisticamente equiparate. La storia di Gheddafi si conclude come una tragedia epocale; quella di Berlusconi e dei suoi cortigiani, recita una farsa grottesca. Eppure, non si può non essere colpiti da alcune analogie tra il dittatore libico e il nostro premier. Ambedue sono portati alla spettacolarizzazione e quindi, come forme necessarie all’esagerazione, alla bugia, al narcisismo autoreferenziale. A parte gli eventuali vincoli di affari privati, li legano sicuramente aspetti culturali fortemente simili, una stessa concezione della politica-spettacolo, una stessa tendenza irrefrenabile alla propria deificazione. Siamo nella dimensione del macchiettismo, che si articola “come continuità della storia” (Francesco Merlo, “La Repubblica”, 23 febbraio 2011). Tiranni, autocrati, macchiette, possono durare a lungo con la forza, comunque esercitata, o con il consenso, comunque estorto. Eppure, a un certo punto devono cedere il potere. Perché i popoli, anche quelli che dormono, possono svegliarsi, possono essere colpiti dal vento della libertà, della democrazia, della voglia di futuro, Davide, con la sua fionda, può vincere il gigantesco Golia. È questo, il convincimento che, oltre che l’orrore, l’immane tragedia della Libia suscita in noi, nella nostra coscienza sgomenta.

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