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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Sgomento e pietà; con questi sentimenti ho assistito come tutti alla tragica fine di Gheddafi e del suo potere protrattosi per oltre quarantadue anni e, specie negli ultimi tempi, con particolare, inaccettabile ferocia. I media di tutto il mondo hanno dato notevole risalto a questa tragica fine e nel mondo occidentale sono stati prevalenti l’euforia collettiva, l’esultanza perché con la morte del Colonnello in fuga da Sirte si era alla “fine di un incubo” e la primavera araba poteva continuare a spirare in un orizzonte di democrazia e di nuove, reciprocamente fruttuose relazioni con l’Occidente. Non mi soffermerò sulle riflessioni in latino sulla precarietà della gloria del mondo, pronunciate con inattendibile pensosità da chi con Gheddafi era stato pronto al baciamano e disponibile a tutte le sue richieste. Ignazio La Russa esulta felice, vaticinando inutilmente pensoso una nuova fase della storia libica, segnata dalla libertà e dalla democrazia. Del resto, il lucido Massimo D’Alema fu omaggiato con una spada dal dittatore, con il quale anche i nostri governanti di centrosinistra stipularono patti vantaggiosi per l’Italia. Al tripudio di accoglienza del tiranno per la sua visita in Italia due anni fa, si unì, senza alcun obbligo istituzionale l’Università “Sapienza” di Roma, che lo ricevette con tutti gli onori “per un incontro – come ebbe a dire il rettore – con gli studenti e la comunità accademica”. Mi riferisco piuttosto ad altri leader di ben diversa statura pronti a far pesare il contributo del proprio paese nella guerra contro Gheddafi sino alla sua cattura e desiderosi di avere posizioni vantaggiose nella ripartizione dell’agognato petrolio libico. Preferisco invece porre alcune domande e tentare di individuare alcuni nodi problematici. Il “bunker” di Gheddafi era stato identificato e così il convoglio con il quale si stava allontanando da Sirte, bloccato del resto da un raid aereo della Nato. Era proprio impossibile che reparti speciali prendessero prigioniero il dittatore per trasferirlo altrove perché si celebrasse un effettivo processo? Non è più persuasiva l’ipotesi che non lo si volesse prendere vivo perché era preferibile farlo tacere per sempre? I legami avuti e i servigi offerti da Gheddafi ai paesi occidentali sono in parte noti, anche se le modalità di questi rapporti resteranno ormai sepolti col suo cadavere: si pensi per l’Italia al probabile ruolo che ha avuto nella strage di Ustica e, su uno scenario internazionale, all’ambiguità con cui si è mosso nelle vicende del terrorismo internazionale facendo spesso, come si suol dire “più parti in commedia” e con rapporti con diversi servizi segreti di cui, proprio perché tali, possiamo sapere ben poco, limitandoci perciò alle supposizioni. Emma Bonino, vicepresidente del Senato e fondatrice di “Non c’è pace senza giustizia”, ha preso le distanze dal “coro di euforia collettiva per l’esecuzione di Gheddafi”, affermando nettamente che sulla sua morte “bisognerà fare chiarezza. In ogni caso ritengo che le esecuzioni e la giustizia sommaria non siano mai da festeggiare neppure quando riguardano dittatori o tiranni”. Per l’esponente radicale sarebbe stato preferibile “un processo equo e non vendicativo di fronte alla Corte penale internazionale, ma questo sarebbe stato un processo scomodo” in particolare per tutti i Paesi implicati nei “segreti di Gheddafi?: dal mostro di Lockerbie al boicottaggio dell’esilio di Saddam Hussein che avrebbe evitato lo scoppio della Guerra in Iraq”. Gianfranco Fini ribadendo la sua distanza da Gheddafi e dalla sua politica ha affermato: “certo la fine che ha fatto, di fronte a quelle immagini deve prevalere la pietas, il rispetto per l’uomo, anche se è un dittatore”. Gheddafi, pur di mantenere il potere e reprimere le rivolte, non ha esitato, come sappiamo, a massacrare ferocemente il suo popolo; proprio per questo lo riteniamo un inaccettabile satrapo e tiranno. Lo riteniamo tale in nome del principio che la vita di qualsiasi uomo vada tutelata sempre e comunque; che il rispetto della vita di tutti e di ciascuno sia un assoluto etico che non ammette deroghe aritmetiche; che la morte di un solo uomo per lui è la perdita di qualsiasi possibilità e che quindi non è meno irrimediabile della morte di cinquemila, diecimila, un milione di persone. Come è stato notato, “la giustizia sommaria non è mai la via giusta [.], soddisfa il gusto della vendetta, ma non quella della giustizia. [.] Ecco perché le scene del corpo straziato di Gheddafi, scandite dalla comprensibile ma scatenata furia di chi lo ha catturato, non possono rallegrare chi ha condiviso l’intervento militare della Nato per aiutare i ribelli libici nella loro guerra al dittatore. Forse era inevitabile che finisse così. Ma forse è giusto ostinarsi a pensare e a sperare che il crepuscolo delle dittature non debba conoscere la carneficina come suo esito obbligato (Pierluigi Battista, “Corriere della Sera” 21 ottobre 2011). Occorre pure riflettere che un tiranno che massacra con tanta determinazione e implacabilità il suo popolo produce un carico di violenza e di odio che viene interiorizzato per cui è persino comprensibile, anche se non giustificabile, che un giovane che si trovi con una pistola in mano vicino al corpo del dittatore prema il grilletto e lo uccida senza pensare a processi o a ragioni di equità. All’inizio di agosto di quest’anno, Mubarak fu trasportato malato e in barella nell’aula di un’udienza prefabbricata. Milosevich, impotente e degradato fu condotto in un tribunale internazionale già deciso a condannarlo, mentre la maggior parte dei suoi compagni di scelleratezze erano disinvoltamente liberi. Non è solo questo il caso della vendetta che si scarica sui dittatori. Ai primi di maggio di questo stesso anno Bin Laden è stato ucciso e frettolosamente sepolto in mare, nel quale ha portato segreti che né gli Stati Uniti, né altre potenze occidentali volevano che venissero portate alla luce. Lo stesso discorso vale per Saddam Hussein, scovato sottoterra, “come un topo”, e al quale venne inflitto un processo farsa prima di condurlo al patibolo a Bagdad, la notte del 30 dicembre 2006. In Liberia, nel 1990, durante la guerra civile, il presidente Samuel Doe, venne torturato; in Romania il dittatore Nicolau Ceausescu, nel 1989, accusato di crimini contro lo stato, genocidio e “distruzione dell’economia nazionale”, venne condannato insieme alla moglie Elena il 25 dicembre; la loro esecuzione fu effettuata alcuni minuti dopo la pronuncia della sentenza. Il 28 aprile 1945 furono uccisi, nel comune di Tremezzina (oggi Mezzegra) in provincia di Como, Benito Mussolini e la sua amante Clara Petacci; i cadaveri, trasportati a Milano, vennero esposti al pubblico ludibrio, assieme a quelli di altri gerarchi fascisti, appesi per i piedi alla pensilina di un distributore di carburante a piazzale Loreto. Concordando “con tutti quelli che hanno riprovato la ferocia” della esecuzione del dittatore libico, Eugenio Scalfari, domenica scorsa ha ricordato: “La storia è purtroppo piena di queste esplosioni di rabbia incontenibile e incontenuta, sicché dolersene è doveroso, ma stupirsene no”. Sangue chiama sangue: la norma di culture arcaiche è conosciuta anche nella memoria della nostra tradizione, così segnata dall’acre sapore della vendetta, della faida. Il gesto che uccide può anche essere così ritenuto gesto riparatore, procuratore di giustizia. Ma non è così. Quando muore per violenza un solo uomo muore in lui tutta l’umanità come soggetto etico universale. “Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possono essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri”: lo ha notato con la sua consueta lucidità Adriano Sofri sabato scorso su “Repubblica”. Le foto scattate con i telefonini a Gheddafi, preso, ferito, vilipeso, ucciso, fatto oggetto di scempio e usato come trofeo, segnalano contemporaneamente il trionfo delle moderne tecnologie e la regressione a forme barbariche di violenza primitiva sulle quali si era esercitata una lunghissima plasmazione culturale, atta a contenerne in qualche modo la ferocia distruttiva. Se non si sarà disposti a fare i conti con tutto questo e a porvi riparo, la primavera araba e analoghi venti di libertà che vanno spirando in questi ultimi tempi in tante parti del mondo potranno attenuarsi fortemente e condurci piuttosto verso un autunno o un inverno delle relazioni collettive. Nella direzione opposta, attraverso una radicale problematizzazione, un lento inesausto esercizio della ragione potrà rafforzare la primavera, portandola a sempre maggiore realizzazione, facendoci gustare il senso meraviglioso di libertà e la stupenda, irrinunciabile bellezza della vita che si accompagna così frequentemente nella storia alla violenza e alla tragedia.

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