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di LUIGI LOMBARDI SATRIANI
Mike Bongiorno è stato uno dei personaggi più popolari nel nostro Paese. L’aver accompagnato di fatto la nascita della televisione in Italia e le diverse fasi della sua pluridecennale storia, le sue doti di presentatore, il suo invito all’ottimismo (“allegria!” è stato il motto con il quale ha contrassegnato le sue numerose trasmissioni), lo hanno consegnato all’affetto degli italiani rendendolo figura estremamente familiare. “Lascia o raddoppia?”, celebre trasmissione della Rai degli anni cinquanta, ebbe tale travolgente successo che i cinema, per evitare il vuoto delle sale, si affrettarono a esporre al pubblico cartelli che assicuravano che le proiezioni si sarebbero interrotte all’ora fatidica della trasmissione per consentire la visione di essa sui televisori posti al centro della sala o, dove possibile, sul palcoscenico. Ho memoria visiva di tutto ciò, che si ripeteva puntualmente a teatro, anche qui per evitare che le rappresentazioni, anche delle più importanti opere, si svolgessero dinanzi a sale desolatamente semivuote. Tali modalità sono state oggetto di analisi da parte di storici della televisione e degli altri studiosi di comunicazione di massa e a essa possiamo agevolmente rifarci per qualsiasi approfondimento. Il successo di lunga durata di Mike è testimoniato, tra l’altro, dal fatto che è uno dei pochissimi personaggi individuato soltanto con il nome, come Dante. Michelangelo e non molti altri, anche in questa nostra terra di poeti, santi, eroi e navigatori. La morte di Mike ha suscitato dolore e commozione, anche al di là della cerchia dei suoi familiari e amici, ma questo non ha impedito che le sue spoglie venissero trafugate in questi ultimi giorni dal cimitero di Dagniente, sul lago Maggiore. Il trafugamento è stato dettato, molto probabilmente, da finalità estorsive; soltanto una voce (Ombretta Colli) ha ipotizzato, anche se in forma interrogativa, una motivazione diversa («non sarà stato per dare un buffetto al Cavaliere?»), ma si tratta di una ipotesi altamente improbabile, anche perché i comportamenti del Cavaliere, rivelati in maniera sempre più cruda dalle trascrizioni delle telefonate delle spregiudicate compagne chiamate ad allietare le sue serate, consentirebbero comunque ben altri e più corposi “buffetti”. Già quando, nel marzo di dieci anni fa, fu trafugata dal cimitero di Meina, cittadina anch’essa sul lago Maggiore, la salma di Enrico Cuccia, dominus potentissimo di Mediobanca, qualcuno avanzò l’ipotesi della motivazione ideologica, ma la richiesta del riscatto, quantificato in sette miliardi di lire, chiarì nettamente la finalità estorsiva. Per completezza di ricordo noterò che alla fine dello stesso mese la bara di Cuccia venne ritrovata dalla polizia in una baita in val di Susa e nello stesso anno gli autori del furto, due torinesi, ritenuti dagli investigatori due dilettanti, vennero condannati. La galleria delle salme trafugate è densamente affollata nella storia recente. Nell’ottobre 1987 la salma di Serafino Ferruzzi, uno dei vecchi capitani dell’industria italiana, suocero di Raul Gardini, venne trafugata dalla tomba di famiglia a Ravenna. I ladri richiesero dieci miliardi di lire, ma i Ferruzzi rifiutarono di sottostare al ricatto e la salma non fu mai ritrovata. In tale macabra galleria sono presenti anche bambini: nel 1992 fu rubata la bara di un bambino morto a tre anni, Raffaele, figlio dell’ex calciatore della nazionale Salvatore Bagni, e venne richiesto il riscatto di trecento milioni di lire, ma, nonostante la disponibilità della famiglia al pagamento, la salma non venne mai restituita. Non si tratta di una tipologia di azioni esclusivamente italiana. Nel 1978 venne rubata dal cimitero di Corsier sur Vevey, in Svizzera, la bara contenente le spoglie di Charlie Chaplin: gli autori erano due rifugiati politici che richiesero il riscatto di seicentomila dollari. La bara fu ritrovata in Francia. Misteriosa la vicenda della salma dell’ex presidente argentino Juan Peron, alla quale nel giugno 1987 furono amputate le mani, nel cimitero di Chacarita a Buenos Aires, per la restituzione delle quali venne richiesto un riscatto di otto milioni di dollari. La salma della moglie, la leggendaria Evita, oggetto di vero e proprio culto da parte dei campesinos che la elessero a loro patrona, fu trafugata, ritrovata, trafugata di nuovo, in una sarabanda che non conosce sosta. Approfondendo il discorso con specifico riferimento al nostro Sud, può essere notato come esso abbia elaborato, come è noto, una complessa strategia di superamento della morte. Essa fissa tempi, modi e spazi per regolamentare i rapporti tra vita e morte, tra variegato mondo della vita e sterminati territori della morte. Sin dal momento del trapasso una serie innumerevole di credenze e di comportamenti articolano una vigile cura da parte dei superstiti per consentire il raggiungimento da parte dell’anima dell’aldilà e il soddisfacimento del suo bisogno di ritornare sulla terra, per appagare la propria arsura di vita e ritrovare uno spazio di domesticità essenziale per la propria identità, anche dopo l’evento oggettivamente irreversibile della morte. Vengono fissati molteplici varchi, spaziali e temporali, tra morte e vita, che rendono possibili viaggi e comunicazioni e, pertanto, la ricostituzione di un dialogo, troncato dalla morte. Anche i sogni vengono piegati a questa fondamentale esigenza comunicativa, e a essa sono assoggettate le numerose figure di veggenti e mistici: si pensi, per tutti, alla nostra Natuzza Evolo. Tale strategia è stata indagata per decenni da Mariano Meligrana e da me, che abbiamo presentato i risultati della nostra ricerca in un’opera, “Il ponte di San Giacomo”, alla quale ho fatto più volte riferimento su queste pagine per motivare l’orizzonte culturale al quale rinviano numerosi episodi che cadenzano la vita della nostra società. Questi rapporti rinviano comunque a una concezione sacrale della morte, che ispira timore e tremore nell’accostarsi a essa, ai cadaveri, a tutto ciò che in qualsiasi forma li riguardi e che è oggetto di una religione del ricordo e di una liturgia degli affetti. La sacralità della morte è complementare, in questa prospettiva, alla sacralità delle vita, bene assoluto e ineludibile per una società che tenda comunque alla sua sopravvivenza, al mantenimento di un tessuto culturale connettivo. Tutto quanto qui sinteticamente richiamato non intende avallare una visione idilliaca della nostra società, come fosse radicalmente immune dall’uso spregiudicato delle salme qui esemplificato. Nelle nostre regioni, infatti, abbiamo registrato negli ultimi anni l’uso delle bare e delle tombe quale nascondiglio di armi, per il trasporto e il commercio della droga e il correlativo uso del cimitero quale centro di smistamento di essa. Sotto questo riguardo non può essere facilmente avanzata una nostra presunzione di innocenza, che suonerebbe del tutto improbabile. Possiamo soltanto notare che abbiamo tanti segnali di perdita della sacralità della morte perché è in atto un processo, sempre più vasto e intenso, di perdita della sacralità della vita. Gli episodi di trafugamento delle salme, nel loro tragico cinismo, sono particolarmente inquietanti per tutti noi quali segnali che possono portare al collasso della nostra vita associata.

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