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“IN tre anni dovranno passare da ottomila a tremila”, aveva detto in conferenza stampa il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel presentare il decreto sul bonus Irpef, quello degli 80 euro in busta paga. Il riferimento era alla società partecipate dagli enti pubblici, vale a dire quelle aziende controllate, in tutto o in parte, da Regioni, Comuni e Province: il cui costo incide – talvolta in maniera determinante – sui periclitanti bilanci di quegli enti. Basti pensare alla capitale: settantamila dipendenti pubblici gran parte dei quali fa capo a tre partecipate (Ama, Acea e Atac) e un debito miliardario a cui è stato possibile porre riparo soltanto con un decreto del Governo. Ma a un patto: che il Campodoglio dismetta al più presto le società colabrodo.

Ma è corretto ancora parlare di società colabrodo, o non è piuttosto tutto il sistema delle partecipate pubbliche a fare acqua? Il dubbio  percorre le quasi 150 pagine del rapporto della Corte dei Conti (Sezione delle Autonomie) presentato il 6 giugno scorso in Parlamento con il titolo “Gli organismi partecipati dagli enti territoriali: osservatorio e relative analisi”. Ed è singolare che esso venga diffuso alla vigilia del varo della riforma della pubblica amministrazione (la relazione del ministro Madia è prevista per domani). Si tratta del primo sistematico, e in gran parte inedito, studio su una nebulosa societaria le cui particelle – anche in virtù di prerogative  perfettamente legali – non sempre sono visibili ad occhio nudo. Un’indagine, si puntualizza, che si concentra “sugli organismi di cui sono presenti a sistema i bilanci relativi all’esercizio chiuso al 31 dicembre 2012”: circa 5 mila su 7.472, vista “la carenza di dati di bilancio per un numero consistente di organismi (2.379). Quel che subito viene fuori è che in tutte le regioni i debiti delle partecipate prevalgono sui crediti e sono addirittura superiori al patrimonio netto di quelle società. Detto in cifre: 65,1 miliardi di debito complessivo a fronte di crediti per 21,3 miliardi e di un patrimonio di quasi 45 miliardi. E  se soltanto il Veneto e l’Emilia Romagna possono considerarsi regioni virtuose dal momento che in quelle aree le partecipate presentano un rapporto tra debito e patrimonio di poco superiore a 1, è nel Centro, ma soprattutto al Sud, e in particolare in Basilicata, che si registrano le performance peggiori. Le partecipate lucane hanno infatti debiti per 180 milioni, un valore quasi nove volte superiore rispetto al patrimonio (20 milioni circa) e realizzano dunque il record del rapporto negativo: 8,95. Ma c’è di più. Perché, sempre secondo il rapporto della Corte dei Conti (i cui dati  sono aggiornati al 2012) se si prendono i considerazione, tra le partecipate, quelle a totale proprietà pubblica si scopre che a incidere considerevolmente sul bilancio è la voce “costo del personale”: un costo che pesa, sul totale di quegli enti, per circa il 37 per cento, ma che diventa di piombo in un alcune realtà territoriali come la Liguria, la Puglia, la Calabria, la Sardegna (50 per cento) ed esplosivo in Basilicata dove stipendi e consulenze assorbono circa il 57 per cento della produzione (nelle 161 partecipate lucane lavorano 542 addetti ognuno dei quali costa in media 45 mila euro l’anno). Un dato così alto, però, si registra soltanto nel caso in cui le partecipate siano interamente pubbliche, e in particolar modo quando queste ultime operano, come si dice, in regime di affidamento “in house” (cioè per conto pubblico e senza gara). “Il rapporto costo del personale/costo della produzione – si nota maliziosamente nel rapporto – è quasi doppio nelle società a totale partecipazione pubblica rispetto alle altre (57,60 per cento rispetto a 28,24)”.   Insomma: ce n’è abbastanza perché la Corte dei Conti faccia rilevare la necessità di tenere sotto costante osservazione quel mondo al fine “di prevenire o contenere i fenomeni elusivi dei vincoli di finanza pubblica”. Del resto, qui e là nella relazione, si fa presente come la Corte abbia evidenziato, nel caso sempre della Basilicata, “la diffusa presenza di società i cui bilanci chiudono in perdita” , “la perdurante inerzia delle amministrazioni a dar corso alle verifiche in ordine al mantenimento delle partecipazioni non strettamente necessarie” , “la forte dipendenza degli organismi dalle Regioni”; oppure si ricorda come siano state censurate “le forti resistenze a dar seguito ai propositi di dismissione” di organismi “le cui attività non sono strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”.

Un capitolo a parte è quello dedicato alla difficoltà dei controlli. Orientarsi tra le osservazioni della Corte non sempre è facile. Quando, ad esempio, si rileva la “maggiore entità dei risultati negativi nelle partecipate pubbliche al 100 per cento”, soprattutto per l’incidenza del costo del personale, ciò lo si fa derivare, testuale, “dalla scarsa efficacia dei vincoli assunzionali”. Il che, depurato quel che c’è da depurare, sta a significare che in quelle società si assume – possiamo immaginare come e perché – al di fuori di ogni criterio di produttività, ma anche aggirando vincoli normativi e di bilancio. E il bello è che tutto questo viene fatto con i soldi dei cittadini i quali – anche a causa del personale ridondante di quelle società – si vedranno le tasse ulterioremente aumentate.

 

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