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CATANZARO – «Piccola mia, papà parte, ma torna presto». E già sa che è una bugia. Bisbigliata all’orecchio della figlia di 7 anni. Che lo guarda e non capisce, davanti a quegli occhialoni scuri  che nascondono il viso impaurito di chi sa che, per i prossimi sei anni e sei mesi, potrebbe non vedere la luce del sole. Se non, quella che filtra dalle sbarre della cella, del carcere di Siano, dove la polizia lo ha portato, ieri pomeriggio, in esecuzione di una condanna, divenuta definitiva, per estorsione. «Un reato che avrei commesso in concorso con una di quelle persone che proprio io ho denunciato con coraggio per avermi sottoposto per anni ad angherie di ogni tipo per mettere le mani sui soldi miei e della mia famiglia», sbotta Antonio Strano, il commerciante catanzarese di 31 anni, finito al centro di un contorto meccanismo giudiziario che a Vibo lo vede parte offesa («testimone di giustizia», ci tiene a precisare) in un processo attualmente in corso a carico dei tredici presunti usurai da lui denunciati e a Catanzaro colpevole di un reato commesso ai danni di un tossicodipendente – minorenne all’epoca dei fatti  – che lo ha accusato di avergli estorto, tra il 2001 e il 2003, dei soldi che, a dire di Strano, quest’ultimo era stato mandato a recuperare da uno degli strozzini che lo teneva sotto scacco. 

Vittima per una Procura, carnefice per un’altra, dunque. Ma, soprattutto, colpevole per la Corte di Cassazione, che, lontana dai procedimenti giudiziari calabresi, ha giudicato in base alle carte di una sola delle due inchieste, quella di Catanzaro, condannandolo, in via definitiva, a 6 anni e 4 mesi di reclusione. 

L’ordine di esecuzione è arrivato solo nel pomeriggio di ieri, ma lui, il giovane commerciante catanzarese, l’uscio della Questura lo ha varcato molte ore prima. Già in mattinata, infatti, insieme al suo difensore di fiducia, l’avvocato Arturo Bova, si è presentato davanti al dirigente della Squadra mobile, Rodolfo Ruberti, per farsi ammanettare. Perché «io non scappo di fronte alla giustizia e voglio solo dimostrare di essere rimasto vittima di un errore giudiziario», spiega il commerciante. Senza poi riuscire a trattenere il pianto. E neanche la rabbia. Contro chi fin dall’inizio ha indicato come la causa di tutti i suoi guai. 

Stando al racconto di Strano, infatti, tutto sarebbe iniziato da quelle perdite al gioco subìte nel 2001, in seguito all’investimento fatto in una bisca clandestina insieme all’amico Vittorio Gentile, che, a quel punto, non avrebbe trovato di meglio che indirizzarlo verso tale Marcello Comità, di Settingiano, con il quale il commerciante avrebbe avviato un rapporto di natura usuraia, con prestiti a tassi del 15% mensile, fino alla primavera del 2001. Quindi, il passaggio nelle mani di Gaetano Muscia, di Tropea, detto “il professore” e definito dagli inquirenti il primo degli usurai del vibonese, con prestiti a tassi di interesse del 10% e con un 5% che, a detta di Strano, sarebbe finito nelle tasche di Gentile a titolo di provvigione. Da lì il “punto di non ritorno”, per il commerciante, che si sarebbe visto costretto a ricorrere ad ulteriori prestiti per coprire i debiti contratti fino ad allora, entrando così in una spirale che, alla fine, lo avrebbe indotto a rivolgersi ai familiari rimasti, fino a quel momento, all’oscuro di tutto. E, che, inevitabilmente, sarebbero caduti, a loro volta, nel vortice infernale di minacce e intimidazioni, che avrebbe visto entrare in scena gli altri indagati, da Giovanni Franzè a Pasquale Seva, fino a Domenico Mancuso, Mariano Fiamingo, Giuseppe e Francesco Zaccaro. Tutti a prestare soldi a Strano, con tassi d’usura compresi tra il 10% e il 50%, durante incontri organizzati tra Vibo e Tropea, anche alla presenza di moglie e madre della vittima, entrambe reclamate dai presunti strozzini in qualità di garanti delle trattative. Che, di anno in anno, lo avrebbero portato ad accumulare un debito di oltre mezzo milione di euro, in gran parte anche sanato. Fino a quando, stanco di abbassare la testa, Strano aveva deciso di denunciare i fatti, permettendo al sostituto procuratore Gerardo Dominijanni di mettere a segno l’operazione “Caorsa”, con l’arresto dei tredici presunti usurai, Gentile compreso. Tutti poi rinviati a giudizio e finiti davanti ai giudici di Vibo per affrontare il processo che ha già visto sia Strano che i suoi familiari deporre in aula per ribadire ogni accusa, per raccontare di quelle violenze perpetrate dagli imputati, «con il pericolo di future vendette», racconta ora la moglie di Strano, che denuncia lo Stato per avere usato e abbandonato il marito, quando, peraltro, i processi tra Catanzaro e Vibo risultano ancora pendenti. Tanto che, ironia della sorte, per il prossimo 1 luglio l’uomo era stato appena citato come teste in un troncone processuale in corso a Catanzaro. Ma adesso a Strano non resta che sperare nella revisione del processo, già sollecitata dal suo legale. E, nell’immediato, di essere trasferito dal carcere in una località protetta, più adatta al suo status di “testimone di giustizia”. «Usato, abbandonato e ora anche condannato ingiustamente», urla tra i denti Maria Antonia Gabriele, mentre davanti alla Questura avvolge con uno sguardo protettivo il marito, annunciando battaglia «contro l’ingiustizia che ci sta colpendo».

 

 

 

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