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VAL D’AGRI – Se Viggiano non ride, il resto della Val d’Agri piange. I suoi centri, sempre più spopolati, lottano con gli stessi numeri neri della crisi che affliggono il resto della regione. Il petrolio non è servito a mitigarne gli effetti. Anzi. Abbiamo raccontato in questi giorni, nel corso del viaggio realizzato nel cuore della terra del petrolio, le contraddizioni del paese più ricco d’Italia, grazie a un gettito di royalty che dal 2005 ha portato nelle casse comunali quasi 120 milioni di euro, dove però benessere e sviluppo rimangono ancor uno sogno lontano. Ma Viggiano è solo un pezzo del puzzle della valle del petrolio. Sicuramente – con i suoi 21 pozzi dei complessivi 29, e il Centro Oli Eni ospitato nell’area industriale – il più importante. Ma non è l’unico. Intorno a quello che si è rivelato un vero e proprio pozzo di San Patrizio per le compagnie petrolifere, ruotano i famosi dieci comuni della cosiddetta Alta Val d’Agri. Qui la desolazione e il senso di impotenza regnano sovrani. L’oro nero è stato un bluff. E i primi ad ammetterlo sono stati proprio loro: gli amministratori che lo scorso anno sono arrivati a rassegnavano le proprie dimissioni per portare la vertenza Val d’Agri al centro dell’agenda politica. Il territorio è in ginocchio.  Nonostante l’enorme ricchezza. E la beffa consiste proprio in questo: hanno visto passare davanti agli occhi fiumi di danaro, scivolati via senza che ne abbiano lasciato il segno. Per la precisione, alcuni comuni, un pò di soldi li hanno visti transitare anche sui propri bilanci. Come Calvello, Grumento, Marsicovetere e Montemurro che nel solo 2012 hanno ricevuto royalty, rispettivamente, in queste quantità:  4.3, 2.8, 2.1  e 0,722 milioni di euro. Gli altri, invece, in termini di compensazioni economiche, non hanno ricevuto nemmeno un quattrino, pur convivendo, in maniera quasi diretta,  con le attività estrattive, e con i problemi ad esse legati. Ma non è solo una questione di royalty. E’ che l’appuntamento con lo sviluppo, legittimamente atteso, è saltato del tutto. Eni e la filiera estrattiva hanno portato poco lavoro per gli abitanti della valle. A Spinoso, Montemurro, Marsico, Paterno e gli altri comuni che gravitano intorno al Centro Oli il tasso di disoccupazione è in linea con quello lucano medio. Si vive per lo più di pubblico. E anche un pò di industria. Non quella legata alle estrazioni, però. Un’azienda come la Vibac, che produce componnenti in plastica, con il suo indotto ha quasi creato più posti di lavoro per la gente del posto. «Se dovesse chiudere questa azienda, allora sì che sarebbero guai», concordano i primi cittadini dell’area. Il management aziendale ha più volte sollecitato interventi che potessero servire all’abbassamento dei costi produzione. Per adesso non ci è riuscita. E nel frattempo ha fatto un nuovo investimento. In Serbia. Solo di recente, dopo 15 anni di estrazioni,  l’impegno congiunto di Regione, sindacati e Confindustria ha portato a qualche risultato. Ad oggi  dei 2.140 lavoratori dell’indotto estrattivo diretto, quasi mille arrivano dalla regione, di cui 668 dalla Val d’Agri. Molti di questi, però, non sono lucani, ma con residenza acquisita. Bisogna poi fare una differenza fra le varie tipologie contrattuali. Molti sono assunti a tempo determinato o comunque precari.

Ma il vero problema è che il  petrolio non solo non si è trasformato in reali opportunità per il territorio, ma, ancora peggio, ha fortemente penalizzato settori come turismo e agricoltura, le cui potenzialità sono evidentemente compromesse dalle attività estrattive.  Per non parlare del delicato equilibrio ambientale e dei possibili rischi per la salute dei cittadini. Basti pensare che un comune come Spinoso, che non prende neanche un euro di royalty – nonostante in linea d’aria disti solo  otto chilometri del Centro Oli – insieme agli altri centri dell’area e ad alcune associazioni ambientaliste ha deciso di commissionare un’indagine “indipendente” rispetto ai monitoraggi pubblici di Arpab. Dopo lo scandalo Fenice, l’Agenzia regionale sconta ancora molti scetticismi.  I comuni non si fidano. Così le amministrazioni preferiscono rimetterci di tasca propria, pur di capire come stiano andando veramente le cose.

Questo modello di gestione della risorsa oro nero va cambiata. I sindaci ribelli della Val d’Agri –  a cui nei mesi successivi si sono aggiunti altri amministratori lucani che chiedono compensazioni ambientali per tutti paesi in qualche modo interessati dalla filiera estrattiva – avevano presentato un documento. Ora, chiedono, che la discussione politica della prossima Giunta riparta esattamente da qui. A partire dalla proposta che riguarda la   ripartizione delle risorse secondo il criterio di prossimità. Cioè in funzione della distanza dai punti di maggiore criticità: Centro oli, pozzi petroliferi e presidi di smaltimento delle acque di estrazione. E che prevede pure che gli stessi criteri vengano applicati anche per il reperimento di personale da impiegare in tutte le attività estrattive, acquisendolo da manodopera locale in misura non inferiore all’80 per cento di tutto il personale impiegato.

Ma, soprattutto, c’è un modello gestionale da cambiare. Se i primi cittadini sono fondamentali nella fase della programmazione – meglio conoscono  le specificità territoriali – è pur vero che i sindaci non possono essere lasciati da soli nella pianificazione dello sviluppo dell’area, nè tantomeno nella gestione di risorse tanto importanti. Insomma, servirebbe una sorta di regia, a un livello istituzionale più alto, con competenze specifiche, in grado di lavorare in sinergia  con le amministrazioni locali. Da una recente riunione dei cosiddetti sindaci ribelli è arrivata un’indicazione precisa: chiedono che un assessorato specifico al petrolio.

Del resto, basta fare due calcoli per dare un peso economico all’opportunità che ci sta sfuggendo dalle mani. Se ai 19 milioni della Val d’Agri, si aggiugono  i quasi 11 milioni complessivi destinati agli altri comuni dell’area, i 90 della card carburanti (che ora si vorrebbe convertire in altro) e i 169 riconosciuti alla Regione: in un anno la Basilicata ha guadagnato    289  milioni di euro. .

m.labanca@luedi.it

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