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Alcuni assistenti civici

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In questi ultimi mesi, le nostre case sono diventate il luogo di interconnessione tra lo spazio pubblico e quello privato. Con la fase due si comincia a ripopolare l’ambiente collettivo, con una progressiva riapertura dei servizi che mira ad un ritorno alla quotidianità. Tuttavia, dobbiamo prendere atto che lo scenario urbano a cui eravamo abituati, di fatto, non c’è più. L’emergenza sanitaria ha portato alla costruzione di un ambiente pubblico che non pare più conservare niente di familiare, facendoci sentire ancora più consumatori che cittadini. Ogni altra attività che non sia riconducibile alla sfera economica è di fatto tuttora sospesa, così che nelle strade non si è tornati all’ordinario, quanto piuttosto ad una forma di alienata partecipazione.

In questa fase ancora emergenziale, seppure meno critica rispetto a poco tempo fa, emergono le contraddizioni di un sistema che ha come suo dichiarato obiettivo la sicurezza sociale e che tuttavia deve ripensare la socialità stessa in modo inedito. Il nuovo modello di convivenza legittima unicamente la vita collettiva che mira alla ripresa economica, favorendo la riapertura delle attività commerciali in modo controllato.

Se già prima della pandemia si poteva riflettere sulla mancanza di un modello di città che implicasse spazi alternativi, ora l’assenza della tanto malvista movida riduce all’osso l’arena collettiva, applicando lo stigma della pericolosità sociale su modelli di mera partecipazione alla vita condivisa. Nonostante la stessa preoccupazione non si applichi al sistema produttivo, è indubbio che gli assembramenti, soprattutto in una fase ancora tanto delicata, costituiscano un pericolo epidemiologico che non può lasciare indifferenti. Eppure, da un po’ di tempo pare che tracciare eventuali aperitivi sia più importante che contare i numeri dei contagi.

Pochi giorni fa si è diffusa la notizia circa la proposta del ministro Boccia in merito all’introduzione dei cosiddetti “assistenti civici”, volontari reclutati al fine di “ricordare le regole della fase due”; una soluzione un po’ ambigua, che tuttavia pare essere stata chiarita e ridimensionata. Quali che siano i limiti di una simile idea, lascia perplessi che, avendo riconosciuto una simile pericolosità negli assembramenti, non si sia pensato semmai di implementare forze dell’ordine competenti ma piuttosto di coinvolgere persone non preparate, che farebbero correre il rischio di spaccare ulteriormente lo scenario sociale. Oltretutto, che sarebbero a loro volta maggiormente esposti senza aver ricevuto alcuna preparazione o avere acquisito particolari competenze. Appare del resto singolare che questa proposta sia stata avanzata dallo stesso ministro che ha poi auspicato una riapertura “senza distinzioni”, che possa consentire la mobilità tra regioni senza alcun discrimine.

Una cecità piuttosto pericolosa, se si considera che in alcune regioni non si è ancora in una situazione tale da poterla considerare stabile. Se da un lato, soprattutto in determinate zone, si insiste sulla possibilità di avere una riapertura totale, considerata quindi pertanto sicura, d’altra parte quando si tratta di vita sociale non si fanno sconti, venendosi così a creare una incerta situazione che tende eccessivamente a fare due pesi e due misure. Un modello autoritario è considerato efficiente per quanto riguarda la limitazione dell’ambiente condiviso, ma una simile rigidità (neppure di per sé ingiustificata) vacilla qualora si tratti di una normalità nei limiti del consumo. In queste settimane sono state spese tante parole in merito ad un ritorno all’ordinario che portasse con sé una riscoperta dei valori condivisi, ma questo auspicio non pare essersi tradotto in fatti concreti. Una pandemia è una situazione di emergenza che non tocca unicamente il sistema sanitario, ma costituisce pure un pericolo per la democrazia, la vita urbana e la socialità. Durante la fase più critica dell’emergenza si metteva spasmodicamente in risalto la necessità di vederne i lati positivi; appare difficoltoso identificare vantaggi in una situazione che non consente la libertà di scegliere e sottolineare la necessità di valutare aspetti positivi di una simile emergenza finisce per svalutarne la gravità.

Tranquillizzare i cittadini, senza però fornire reali soluzioni di tutela che consentano di sentirsi al sicuro, è un atteggiamento grave e poco serio. Se anche tra la classe politica c’è chi pensa alla possibilità di garantire le vacanze estive, che sarebbero utili per risanare l’economia nazionale, occorre evidenziare come la crisi di quest’ultima coincida anche con il processo di dismissione/privatizzazione di beni e servizi pubblici. Quello che sembra fondamentale non è un forzato ritorno ad una normalità che non è tale, quanto piuttosto provare a costruire un’alternativa a quei limiti del sistema che erano presenti già prima del Covid19.

Il rischio più profondo di questa crisi rischia di diventare quello di perdere una reale opportunità di un cambiamento non solo possibile, ma necessario.


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