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Ci spezzano le ginocchia da piccoli. In maniera più o meno esplicita, più o meno consapevole. Il primo messaggio che ci danno sulla città, appena abbiamo un minimo di età della ragione, è un messaggio molto semplice ma contundente: «Vattene da Potenza appena puoi». 

Dietro questo racconto che ci facciamo c’è un mondo di opportunità perdute che ha la tensione vivida di una ferita aperta. Una piccola città, arroccata sulla montagna, lontana dai centri culturali è per definizione un’area laterale e un po’ dismessa. Un dipinto in toni di grigio senza qualcosa che catturi l’attenzione. Un posto in cui le cose non succedono, o se succedono sono sempre le stesse. Un intrico di persone che continuano ad assomigliare a quelle del giorno prima e del giorno prima ancora.
Le ragioni per cui ci costruiamo intorno questa narrazione della città possono apparirci molto personali, collegate alle nostre aspirazioni o alle nostre preferenze mancate. Ma sbagliamo: in realtà le cause vere di questo racconto sono due caratteristiche di sistema. La prima è la massa critica: noi potentini siamo pochi e quindi produciamo meno idee e facciamo circolare meno idee. 
La seconda è geografica: la posizione, le distanze. Sono fattori che pesano e che contribuiscono a creare l’idea di vulgata della provincia immobile e immutabile. Io di questa «narrazione della città» ho un ricordo molto preciso. Prima di laurearmi, venti anni fa, ero costretto ad andare fisicamente a Napoli a comprare i testi su cui studiare. Non avevo accesso facile ai prodotti culturali, alla musica, al cinema non di cassetta. C’era poco da fare, da vedere, da cercare. Il racconto del mondo, quello vero, che mi arrivava dai giornali e dalla televisione strideva tanto con la realtà che mi vedevo intorno. Non c’era modo di parteciparvi. Però oggi questo racconto forse è solo un alibi. Gli ultimi venti anni hanno cambiato il mondo e hanno ridisegnato anche le opportunità per una piccola città. E per i suoi cittadini. La nostra città oggi sta vivendo una sfida importante, se decide di continuare a viverla. Ha mille problemi da risolvere, come tutte le aree urbane. Ma non è più necessariamente rinchiusa negli angusti confini di cui parlavamo. 
Oggi con pochi euro possiamo metterci in tasca un centinaio di grammi di plastica e tecnologia digitale. E sono pochi grammi che ci aprono la porta a un mondo fatto di nuove relazioni, di comunicazione, di accesso alla conoscenza. Di opportunità. Di sviluppo. I fisici teorici, già anni fa, hanno dimostrato che esiste una correlazione tra la quantità di idee che circolano e la qualità delle idee che un territorio o una comunità è in grado di esprimere. E una delle strade più economiche che possiamo percorrere per creare sviluppo -e per cambiare la città e il racconto che ce ne facciamo- è proprio questa: accelerare la circolazione di pensiero, inserire intelligenza nei processi sociali, lavorare sull’incontro tra le opportunità e chi può coglierle. Il costo di questa scelta non è, paradossalmente, un costo economico. 
Non servono infrastrutture particolari, né investimenti a troppe cifre. Serve la volontà politica di innescare tra i nostri palazzi e le strade strette un circolo virtuoso. Serve lavorare sulla necessità di diffondere la nuova alfabetizzazione il più in fretta possibile. E non è un caso che io parli di «alfabetizzazione»: oggi quella che oltreoceano chiamano information literacy è una capacità che assomiglia molto a saper leggere e scrivere negli anni cinquanta del secolo scorso. Su questo, in città, siamo molto in ritardo. 
La cultura digitale -che alla fine è il mondo contemporaneo- da noi sta arrivando con molta lentezza. Perché -almeno fino ad oggi- non l’abbiamo mai considerata strategica. La nostra classe dirigente -politici, amministratori, giornalisti, intellettuali- si è formata in un’altra epoca. E non ha ancora avuto voglia -fino ad adesso- di traghettare se stessa e la nostra gente verso il presente. Non è (ovviamente) una questione di colpe. Il mondo intero sta vivendo con difficoltà la transizione da una cultura all’altra. È nella logica delle cose. Però forse è arrivato il momento di fare questo passo con convinzione, di iniziare a lavorarci. Di immettere idee nuove, di educarci alla modernità. E di coglierne tutte le sorprese che possono derivarne. Tra l’altro, per quanto sembri controintuitivo, su questo fronte è un grande vantaggio essere una piccola città. C’è meno complessità da districare, è più facile fare squadra per un’avventura collettiva, è più semplice fare di Potenza un laboratorio di innovazione e di idee avanzate.
 Creare giochi a somma non zero, che sono quelli che -da sempre- spingono il mondo una casella più avanti. Pensaci un attimo: raccontare Potenza usando parole come «laboratorio» e «idee avanzate». Sarebbe una narrazione differente, un posto diverso in cui abitare, un accesso a speranze nuove per i nostri giovani. E forse non è nemmeno una scelta da fare, un qualcosa su cui decidere per il sì o per il no. Piuttosto, è una responsabilità forte di chiunque abbia un ruolo nel costruire -in tutto o in parte- il racconto di questa città.
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