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NON fatemi fare nomi, ma vi racconto una storia. Qualche anno fa il direttore di un grande marchio nazionale (e caro amico), quando mi presentava a qualcuno, si divertiva molto a presentarmi a effetto. Prima di dire il mio nome e cognome assumeva un’aria tra il sornione e lo stupito e diceva: «Lui è di Potenza!». Lo sguardo aggiungeva contesto alla frase: «esistono davvero».

Credo di averci scherzato anche io spesso. Negli anni novanta quando vivevo a Barcellona e mi chiedevano da dove venissi, dicevo che era una città piccola e lontana da tutto. Tanto che noi stessi quando ne uscivamo dovevamo lasciare delle briciole per ritrovarla al ritorno. Oggi quando dico «abito a Potenza» e osservo lo sguardo dell’interlocutore, spesso aggiungo «Sìsì, non è una città, è una leggenda metropolitana».

Da randagio (o moderno vagabondo) che lavora ovunque tranne che nella città in cui abita, mi capita spesso di dover spiegare le ragioni che mi hanno portato a scegliere di vivere qui. Non è facile, ma col tempo ho sviluppato diversi argomenti. E una certa aneddotica.

Il primo, il più forte, è che se guardi solo Potenza non hai idea di come si viva fuori. Le grandi città hanno sicuramente più opportunità, ma anche dei costi (umani, non solo economici) molto complessi da sostenere. C’è gente che passa una porzione importante della propria vita nei mezzi (o in auto) solo per andare e tornare dal lavoro. La moglie di un mio amico romano mi raccontava che la mattina si trucca nel traffico per ottimizzare i tempi. E non è un caso limite, è frequente, è vicino ad essere -magari in forme diverse- la norma.

Io ho sempre apprezzato, invece, la libertà che deriva dal potersi spostare dentro la città in tempi ragionevoli. È un principio di libertà che ho tenuto a mantenere. Ma ce ne sono altri più evidenti e persino più importanti. I potentini, per definizione, si lamentano dei potentini. È un classico, se vogliamo. Però, se ci guardiamo intorno, in quasi tutte le altre città manca quello che abbiamo qui: l’assenza di paura del prossimo, che deriva direttamente dalla nostra disabitudine alla microcriminalità dilagante. In una città in cui la gente non ha paura di uscire o di incontrare uno sconosciuto si vive meglio.

Poi c’è la nostra antica cortesia. I potentini si raccontano come un popolo di «maleducati esclusi i presenti». Eppure, se porti a passeggio per Potenza un forestiero, si stupisce della gente che ti sorride, della gentilezza (magari montanara, ma sempre gentilezza) delle persone. Entri negli ascensori di Piazza XVIII Agosto e ti dicono «buongiorno». Incontri qualcuno in un posto dove non c’è gente e vedi che ti saluta anche se non lo conosci. Noi non lo notiamo, ma chi viene da fuori non riesce a crederci. È una dimensione umana che diamo per scontata, ma personalmente io la trovo un capitale importante.

Persino nel traffico, che a noi sembra rancoroso e caotico, siamo decisamente meno stressati e nervosi. Mille volte la gente che portavo in macchina si è meravigliata del fatto che fossero rarissime le occasioni in cui in qualche incastro non ci si attaccasse ai clacson. Certo, ogni tanto succede anche qui, ma è la scala a far la differenza. Da fuori, nel traffico, ci vedono educati e pacati tanto da stupirsene. E per noi che ci lamentiamo del cemento che invade tutto, potrebbe essere addirittura sorprendente che lo sguardo di qualche straniero, abituato a hinterland ben più degradati, lo porti a dire: «ma quanto verde avete qui» (e le montagne intorno contano, lo dico da motociclista). A noi sembrano luoghi comuni, li diamo per scontati, non li percepiamo. Ma li baratteremmo con altro, perdendoli? Non pretendo di convincere nessuno, ma io credo che, ancora una volta, questi piccoli dettagli trascurati ci facciano vivere meglio che in altri posti.

Così non mi stupisce la notizia di qualche giorno fa secondo cui Potenza ha un’indice di felicità basso, il più basso d’Italia. Ma è una notizia che si spiega facilmente. Al di là del campione statistico relativamente limitato, puoi andare a intuito: se chiedi a duemila potentini cosa pensano della città, probabilmente vedranno i problemi. E ce ne sono tanti (dalla difficoltà di trovare un treno fino alla scarsa idea di futuro che inculchiamo ai giovani sin da piccoli). Tuttavia, ecco, io non butterei via il bambino con l’acqua sporca. Ci sono molti parametri, qui da noi, che segnalano una qualità della vita. Fare un giro altrove e vedere se è il caso di barattarli con altri parametri diversi, resta una scelta personale. Io ho scelto e sono rimasto qui.

Ma proviamo a guardarla da un altro punto di vista. Noi non abitiamo la città, abitiamo il racconto della città. Un racconto di cui noi stessi, per primi, siamo coautori. Se continuiamo a raccontarci senza speranza, non costruiremo mai speranza. Eppure Potenza è una città in cui si possono fare cose belle. Ci diciamo sempre che qui non si riesce a far nulla. Ma fare cose belle è difficile, è difficile ovunque, non solo qui. E oggi non siamo più isolati dal mondo come venti anni fa: Internet, il digitale, ci danno accesso alle migliori idee e alle migliori menti del pianeta. Il nostro racconto, la narrazione della città che ci facciamo, può risentirne in modo eccezionalmente positivo. E la responsabilità è nostra, è di tutti, nessuno escluso.

Certo, c’è chi ha delle responsabilità maggiori. C’è chi questo racconto lo costruisce per gli altri, come i giornalisti e la nostra classe politica. C’è chi più di altri può (e deve) aiutarci a superare la mentalità provinciale, che è tipica delle città una volta isolate. Il percorso è facile: basta immettere idee, pensiero, abituarci al confronto con il diverso, a guardare le cose in maniera differente.

Ma non ci aiuta, sicuramente, restare fermi a brontolare o a compiangerci. La città è viva, ricca di forze e di persone di qualità, che aspettano solo di essere incanalate e messe a sistema. Facciamolo, e chiediamo a chi ci governa, o ha responsabilità, di darci una mano su questo.

Abbiamo tutti l’obbligo, per noi stessi, di indirizzare queste energie in una forma positiva.

Alla fine, se dovessi dare una mia opinione sulla presunta tristezza della nostra città, io direi che è soprattutto una questione di mentalità, che sconta tanti decenni di isolamento geografico e di infrastrutture. Ma la mentalità si cambia, facendo circolare idee, costruendo opportunità invece che rancori e pessimismo.

La base da cui partiamo è una città che ha sicuramente dei problemi, ma che oggi non è più disconnessa dal mondo. Come in molte città abbiamo le buche nelle strade, un’urbanistica spesso grigia,  collegamenti complicati con esterno, eccetera. Ma risolvere questi problemi costa e si farà con il tempo. C’è qualcosa che possiamo fare più in fretta e con maggiori risultati. Investiamo in cultura, in apprendimento.

Diffondiamo il contemporaneo, che oggi grazie alle nuove tecnologie, per noi è accessibile. Allarghiamo l’orizzonte, guardiamoci da fuori. E vedremo quanto in fretta si cresce.

Impegniamoci tutti a cambiare il racconto. Lamentarsi o criticare non è mai una strategia.

Twitter: @gg

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