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Perché fino al tardo ottocento l’80% della popolazione viveva nella terra e della terra ed oggi, nei paesi occidentali, questa quota è scesa generalmente sotto il 5%? La risposta è molto semplice e va ricercata nell’aumento di produttività.

Secondo le stime di un importante storico dell’economia, Paul Bairoch, in tutta Europa la produzione di grano è aumentata del 45% nel xix secolo, del 23% nella prima metà del novecento, e del 193% tra il 1950 e il 1985.

Questa sorta di miracolo è potuto accadere grazie a due fattori congiunti, il primo si chiama innovazione tecnologica ed è dovuto alla concomitante diffusione di macchine agricole specializzate, ai progressi nel campo della selezione genetica, della chimica dei fertilizzanti e degli antiparassitari; il secondo, altrettanto indispensabile, è l’enorme aumento della domanda dovuta ad una popolazione in forte crescita demografica.

Naturalmente la questione è abbastanza più complicata, ci sono anche fattori geopolitici; ulteriori fattori tecnologici come la creazione della catena del freddo ed il miglioramento dei trasporti; fattori sociali come l’introduzione di metodologie imprenditoriali nella conduzione dell’attività agricola; ma, volendo sintetizzare, i due fattori principali rimangono: innovazione tecnologica ed incremento della domanda prodotto dall’industrializzazione e dal conseguente inurbamento della popolazione.

Mi vorrete scusare per questa pillola di storia ben nota ai più, l’ho ritenuta un passaggio necessario perché spesso anche le questioni ben note possono sfuggire, un po’ come quando si inverte la destra con la sinistra, ed in questo caso la questione è che un aumento del benessere economico di una popolazione è conseguenza dell’aumento di produttività e, nell’esempio appena presentato, ciò che ha determinato questo aumento è stata l’innovazione tecnologica e l’industrializzazione galoppante.

Questa situazione è durata sino agli inizi degli anni ottanta quando, in maniera silente, dalle nostre parti e molto rumorosa in località più attente a guardare il futuro, l’economia ha cambiato radicalmente traiettoria, le industrie, nella migliore delle ipotesi, hanno cominciato a delocalizzare le loro produzioni in paesi con costi per la manodopera molto bassi, nella peggiore hanno semplicemente chiuso non potendo reggere più alla competizione di produzioni a prezzi nettamente più bassi, provenienti principalmente dai paesi asiatici.

Si è interrotto un ciclo che aveva avuto come principale protagonista l’industria manifatturiera, motore della straordinaria crescita economica e sociale dei paesi occidentali ed ancora una volta, come nell’ottocento, il luogo fisico dove si è sviluppato questo nuovo ciclo economico sono state le città.

Apparentemente questo mutato contesto, chiamato generalmente globalizzazione, è il principale imputato della crisi occupazionale che viviamo attualmente ma (dopo aver vagato per un po’ tra la storia e le geografia) vorrei provare dimostrare che, contrariamente a quanto comunemente si pensa, le cose non stanno esattamente così.

Nel periodo in cui si è raggiunta la massima occupazione nel settore dell’industria, agli inizi degli anni ’70, poco meno dei 2/3 della popolazione era già occupata nel settore dei servizi e, nonostante ciò, era indubbio che il luogo dove si creava la produzione di valore era proprio la fabbrica.

Le politiche pubbliche, ben coscienti dell’effetto di crescita derivante dall’apertura di una fabbrica in una determinata zona, che andava ben oltre il numero dei posti di lavoro degli operai della fabbrica stessa, hanno cercato di mettere in campo iniziative atte a favorire tali insediamenti, dagli esiti spesso discutibili ma sicuramente con buone intenzioni.

Oggi, come abbiamo visto, è possibile produrre gli stessi oggetti, potrei dire lo stesso divano o la stessa automobile, in altri luoghi del mondo ad un costo industriale più ridotto. Ha ancora senso concentrare quantità notevoli di risorse pubbliche direttamente (incentivi a vario titolo per insediamenti produttivi) o indirettamente (per esempio la cassa integrazione) per sostenere queste iniziative manifatturiere?

Nel breve periodo sarebbe senz’altro deleterio non utilizzare gli ammortizzatori sociali per tamponare le situazioni di crisi industriali e sarebbe parimenti insensato pensare in termini di deindustrializzazione totale, piuttosto si dovrebbe ragionare in termini di industrie ad alta specializzazione e valore aggiunto.

Ma qual è il motore della crescita attuale e dei prossimi decenni? Certamente non è più l’industria, tutte le più grosse multinazionali (ed anche la Fiat) hanno delocalizzato le loro produzioni e conservato, nei luoghi di origine, i centri di progettazione proprio perché il valore aggiunto non è più nella manifattura ma nella conoscenza.

II nuovo motore della crescita economica è l’innovazione e la conoscenza, la maggior parte del valore aggiunto di un telefonino è nella sua tecnologia, nel suo design e nel marketing, non nella produzione industriale. Il Sole 24 Ore (19/9/2012) riportava questo dato: costano 207 dollari i componenti, gli elementi hardware e la manodopera per assemblare un Iphone 5 da 16 gigabyte… il prezzo finale negli stati uniti dell’iphone 5 da 16 gigabyte… sarà sugli scaffali di 649 dollari.

Enrico Moretti, docente di economia all’università di Berkley (cervello in fuga?), ha condotto una ricerca con la quale dimostra che, per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico creatosi in una città vengono a prodursi cinue nuovi posti, frutto indiretto del settore hi-tech di quella città…

Va bene la preservazione delle tipicità eno-gastronomiche, la valorizzazione dei territori, le produzioni di alta qualità e di nicchia, non siamo solo homo oeconomicus, prima di tutto siamo homo culturalis, ma chi comprerà quella bottiglia di vino da 50 euro o quel provolone podolico da 40 euro/kg senza un motore economico in grado di trainare l’economia?

Arriva un momento in cui le scelte diventano ineludibili e allora dove indirizzare le risorse pubbliche destinate ad incentivare lo sviluppo?

A meno che non si voglia che la Basilicata abbia tra vent’anni una popolazione di 300.000 abitanti, per lo più anziani (e sia probabilmente smembrata in due parti  accorpate  rispettivamente con la Puglia e con la Campania) dove dei turisti avventurosi si recano per restare ammirati dal  territorio incontaminato e dai borghi montani disabitati, occorre concentrare quante più risorse possibili, e nella maniera più efficiente, sulla formazione a tutti i livelli, sull’attrazione di imprese hi-tech, sull’università e sulla ricerca. Occorre che tutta la programmazione 2014-2020 sia concentrata su un obiettivo specifico, far diventare la regione basilicata, la regione della conoscenza.

*presidente di Exo organismo di ricerca

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