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«SI comincia sempre perché è meglio fare il giornalista che andare a lavorare».
Pantaleone Sergi inizia così il suo racconto. Ora si gode la pensione, tra esami e continui studi e pubblicazioni. Da “giovane”, ha ricoperto tanti ruoli molto prestigiosi, come per esempio l’inviato del quotidiano La Repubblica per cui ha collaborato fin dalla sua fondazione. Ed è molto legato alla Basilicata, sulle cui vicenda (dal giornalismo alla criminalità organizzata) ha scritto diversi libri.
Sergi vive un po’ sdoppiato. Perchè da un lato ha i ricordi belli di questa professione, «per cui si aveva rispetto e attenzione», dall’altro vive le novità. Una delle sue figlie ha deciso, dopo studi prestigiosi in Scienze internazionali diplomatiche, che voleva fare la giornalista, non la diplomatica. E si è condannata così a una vita precaria, tra contratti e regole che non esistono, con retribuzioni da andare ad elemosinare. Perchè è chiaro: chi vuol fare il giornalista lo fa non per lavorare. E pagare per una passione è certo un reato.
«Io l’avrei fatto gratis quando ho cominciato – dice Sergi – ma la verità è che allora si era retribuiti. Ho iniziato da studente. Mi ero iscritto a Ingegneria a Milano, poi degli amici di Sesto San Giovanni che avevano un piccolo giornale mi coinvolsero».
La passione allora nasceva in stanzette che puzzavano del fumo di sigaretta e con il rumore delle macchine da scrivere. C’era, molte volte, anche il profumo della tipografia, il gusto di guardare per primi quanto creato, sporcandosi letteralmente le mani. Come nei film. Erano gli anni Sessanta.
Sergi “bazzica” in varie redazioni, come quella sportiva dell’Unità e poi – dopo il cambio di indirizzo di studio – all’Ora di Messina.
«Abbiamo fatto tante battaglie sindacali – dice – perchè i diritti dei giornalisti venissero rispettati». Ma una cosa è certa: si veniva retribuiti sempre. E anche bene.
E’ fondamentale questo se si pretende l’indipendenza del giornalista: perchè se al lavoro non viene data la giusta dignità, come si può pretendere da lui l’assoluta abnegazione, gli orari improponibili, l’abbandono (quasi totale) delle famiglie? Perchè la passione porta sacrifici.
«E’ cambiato tanto da allora, sia dal punto di vista della qualità che del mercato. Questa è diventata una professione senza regole. Siamo in una Babele di informazioni, ci sono agenzie, siti, comunicati. Puoi trovare informazioni ovunque e questo dà l’idea che oggi sia facile fare un giornale. Che ci vuole? Solo che poi quei giornali, comunque vengano fatti, non hanno mercato, non si mantengono. E così i diritti sono stati persi, polverizzati, frantumati. Chi fa questo mestiere diventa ricattabile: se vendi, bene. Non vendi? Che si pretende, anche la retribuzione? E tutto questo porta al proliferare di regole strane anche nell’accesso a questa professione. E la qualità è crollata».
Un tempo lo stesso lavoro che oggi deve fare il solo giornalista, lo facevano almeno in due. C’era il grafico che disegnava la pagina. E il giornalista che rincorreva la sua notizia. «Che poi facevamo anche la pagina, ma non le quattro o cinque che si devono fare oggi, a ritmi molto diversi. Per dire: noi avevamo il classico maestro dell’elementare che faceva il corrispondente dal paese. Ma il suo pezzo veniva rivoltato spesso come un calzino, sempre che venisse considerato degno di pubblicazione. E tenete presente anche un’altra cosa: all’epoca non eravamo subissati di comunicati stampa, ne arrivavano due o tre al massimo. E noi non potevamo permetterci di aspettare la nota. Andavamo sul posto, sbirciavamo, origliavamo. E la costruivamo la notizia. Per questo la politica aveva rispetto del giornalista. Anche perchè il numero di copie che si vendeva allora ti dava peso e forza. E tu acquistavi autorevolezza e rispetto».
Poi «c’è stato un lento declino». E questo ha portato al progressivo indebolimento della figura del giornalista. Da cui oggi comunque si pretende il lavoro del passato senza le stesse garanzie.
Che è come chiedere al dipendente Fiat di continuare a lavorare anche di più senza le garanzie precedenti. Lo si arriva anche a fare, la passione ti fa fare di tutto, ma alla lunga la vita ti chiede il conto.

a.giacummo@luedi.it

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