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ADESSO anche la Dda di Salerno entrerà a far parte del complotto? O è il caso che in Basilicata, e a Potenza in particolare, qualcuno cominci a fare i conti con se stesso?

Da qui in avanti saranno i processi a stabilire qual è la verità giudiziaria ancora possibile 17 anni dopo l’omicidio dei coniugi Gianfredi.  Ma una cosa è certa: i potentini devono rassegnarsi che quello di via Livorno è il “loro” omicidio. Tutta quella violenza appartiene a Parco Aurora, come ai quartieri dove sono sopravvissuti impuniti, per troppo tempo, chi ha ordinato l’esecuzione e chi ha premuto il grilletto del canne mozze che ha martoriato un uomo e sua moglie, la prima vittima innocente. Davanti agli occhi di due bambini, salvi soltanto perché si sono accovacciati dietro i sedili con i loro genitori a fargli da scudo.

Troppo facile puntare il dito altrove “perché è stata gente di fuori”. Non si può sfuggire in eterno dalla coscienza che si sono tollerate a lungo aderenze pericolose tra un’ambiziosa manovalanza criminale, imprenditori, e politicanti altrettanto ambiziosi, disposti a chiudere tutti e due gli occhi per qualche voto in più. Salvo poi sfogarsi e ricordare al telefono che quei soggetti andavano ricompensati, altrimenti qualcuno c’avrebbe perso «la testa». Di nuovo.

Non è un caso se i nomi di cui da ieri si è tornato a parlare sono gli stessi dell’inchiesta su mafia e politica che ha lambito il Comune di Potenza (con la condanna in primo grado per concorso esterno di un ex assessore), e più di recente i palazzi della Regione.

Troppo a lungo persino associazioni con la lotta alla criminalità nel Dna si sono distratte a inseguire teoremi fuorvianti, finendo per attestarsi in maniera paradossale sulle stesse posizioni di chi ha sempre voluto sostenere che il problema fosse “estero”, per sottrarsi alla consapevolezza del livello della propria compromissione.

E le palate di fango gettate addosso a chi era “colpevole” di raccontare la verità di cui oggi parlano i pm di Salerno, orfani da poco del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, dopo i colleghi potentini guidati dall’ex Giovanni Colangelo? E le persone innocenti “mascariate” una prima volta soltanto per le loro frequentazioni, e poi ancora, con un tempismo più che sospetto, non appena il loro destino si è incrociato coi lucrosi affari della parte “buona” ed etnicamente pura della città?

Bisognerebbe riflettere anche sul significato di depistaggio se di fronte alle dichiarazioni di alcune persone, da ultimi due rei confessi, si è deciso di esaltarne le differenze mettendoli tutti sullo stesso piano, piuttosto che valutarne l’attendibilità in maniera indipendente, ponderando i riscontri e il livello di coinvolgimento.

Si è arrivati addirittura a intrecciare l’accaduto – su Repubblica non più tardi di 2 anni fa – con la spy story di Toghe lucane e dei corvi del Palazzo di giustizia, gli omicidi di un serial killer come Restivo e la morte sospetta di Anna Esposito, il commissario di polizia impiccato alla maniglia di una porta del suo appartamento.

E’ inevitabile che un feuilleton del genere abbia finito per distrarre gli investigatori impegnati nel difficile tentativo di portare un po’ do luce nei drammi irrisolti di parenti, amici, conoscenti e semplici cittadini. Tanto più che essi stessi a un certo punto sono stati avvolti nel torbido, nell’oscuro, e saranno stati tentati di farsi prendere da scoramento e rassegnazione di fronte a chi non mancava mai di constatare che la verità ormai è impossibile, inafferrabile. Un ritornello ripetuto da più parti ad ogni occasione buona. Sospettati e insospettabili. Troppe contraddizioni. Troppo il tempo passato. Troppo, troppo, troppo. 

Intanto i figli continuavano a struggersi sentendo parlare del “giallo” sui loro morti, e a pranzare coi boia dei loro padri, celati sotto mentite spoglie. Soltanto il lavoro di inquirenti e forze dell’ordine ha impedito che un oltraggio simile – una volta scoperto – armasse nuove tragedie. Perché un figlio non può smettere di domandarsi chi ha ucciso in quel modo i propri genitori. E questo proprio gli assassini lo sanno bene.

Come si fa a dimenticare l’odore del sangue, degli spari e della polvere raccolta sui tappetini di un auto? Quell’urlo disperato di nascondersi dietro i sedili e i colpi esplosi a distanza ravvicinata. Il buio, ogni volta che si chiudono gli occhi. Il silenzio.

Non è solo una questione di giustizia. 

lama

l.amato@luedi.it

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