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Parlando con Roberto Moliterni, autore e sceneggiatore energico, capace di trasmettere coinvolgenti immagini con la sua scorrevole scrittura, durante una rocambolesca intervista in auto, abbiamo cercato di soddisfare alcune curiosità sul suo romanzo, Arrivederci a Berlino Est.

Vi è una lotta interna ai personaggi,tra vita sognata e vita vissuta, ciò si vede anche nella relazione amorosa tra i protagonisti. A parer suo, questo scarto è una costante problematica con cui ogni uomo deve confrontarsi?

Nella vita ci troviamo davanti a circostanze diverse da quelle che speravamo, così molto spesso è più bello immaginare le cose che viverle davvero. Gli ideali servono ad andare avanti: dobbiamo sempre avere un ideale da inseguire. Lasciare che la vita sia sempre due passi davanti a noi ci rende vivi.

Hellen, unica vittima veramente innocente della storia, vuole fuggire da Berlino Est per prendere in mano la propria vita e conservare la sua purezza. Si può vedere in lei una sorta di alter ego ideale del protagonista?

Sì, certo. Ci sono dei momenti, nella storia delle persone, in cui diventa difficile riuscire ad essere puri nonostante ciò che accade intorno; Hellen è l’unico personaggio che ci prova e soffre per la mancanza di purezza che la circonda. Non è detto che per sopravvivere si debba affrontare la storia a viso aperto, anche perché ci sono momenti in cui si è più deboli della storia e si otterrebbero solo risultati fallimentari, per questo la fuga, alle volte, è un gesto coraggioso. Hellen è meno affascinante di Malvina, non è un’eroina, una femme fatale, però è affidabile ed ha in sé un sentimento di imbarazzo, inadeguatezza, che comunque attraggono.

Parte integrante dell’atmosfera del romanzo è un deprimente senso di noia. Lei ritiene che la noia possa essere un male maggiore del dolore?

Più che noia è malinconia, che diviene così struggente da rendere arrendevoli. Titta, come me, vive bene nella malinconia, è un sentimento a cui ci si abitua e ciò non lo rende un male assoluto. Egli teme di più l’inerzia, il non aver fatto abbastanza per ribellarsi alla Storia quando poteva, anche se forse non poteva mai; ciò lo rende un personaggio tragico nel senso classico del termine, parlo cioè di una tragedia, che non è un dramma totalmente negativo, ma l’impossibilità di scegliere in cui sono costretti i personaggi.

Molte volte, nel romanzo, ritroviamo una sorta di prosopopea della Storia. Lei ha una concezione di Storia personale? Quale ruolo pensa abbiano gli uomini rispetto ad essa?

Io ho una visione “lucana” della storia -per così dire-, in cui l’individuo è schiacciato dai grandi eventi, subisce la storia. L’idea di dover subire la storia è nel nostro spirito di rassegnazione, che per certi versi è la nostra forza, perché porta ad avere grande capacità di adattamento. Però la mia formazione successiva parla di personaggi che si ribellano alla Storia e provano a determinare il proprio destino. Credo che alla fine non importi se giungano dei cambiamenti, conta che l’individuo abbia fatto di tutto per non essere più vittima della Storia.

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