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Alcuni dei carabinieri arrestati a Piacenza

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QUELLO che è avvenuto a Piacenza non era mai successo in Italia. In seguito alle operazioni condotte dalla Guardia di Finanza, lo scorso 22 luglio la caserma dei carabinieri Levante è finita sotto sequestro da parte dell’autorità giudiziaria e ben sei militari sono stati arrestati con l’accusa di reati particolarmente pesanti (benché ancora da dimostrare) tra i quali spaccio di droga, estorsione ed addirittura tortura.

Un caso estremamente delicato, soprattutto se si considera che ad essere sotto processo è l’Arma dei Carabinieri, abitualmente ritenuta dell’immaginario collettivo il prototipo di un modello insostituibile di difesa nazionale.  Il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è dunque un fatto grave che tuttavia appare sintomatico di un problema che va al di là della responsabilità dei singoli indagati.

L’indagine sulla caserma Levante è in realtà inedita solo in quanto ad ampiezza dei reati, ma non è affatto la prima volta che la cronaca nazionale riporta episodi di violenza e soprusi che coinvolgono le Forze dell’Ordine. A dover rispondere della gravità delle proprie azioni sono stati in passato gli agenti coinvolti nel caso Cucchi, condannati solo lo scorso novembre con l’accusa di omicidio preterintenzionale. La stessa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha commentato l’indagine condotta dalla Procura di Piacenza rimproverando aspramente la retorica delle cosiddette “mele marce”, sottolineando piuttosto come l’aumentare di casi simili sia testimonianza di un problema interno al sistema stesso.

Negli ultimi mesi, soprattutto in seguito all’emergere sullo scenario internazionale del movimento Black lives matter, si è del resto parlato tanto anche del cosiddetto “defund the police”, slogan utilizzato dagli attivisti americani per chiedere lo smantellamento degli organi di polizia. Con la convinzione che non sia sufficiente una riforma delle stesse, il movimento di protesta ha infatti sottolineato come l’unica alternativa auspicabile ai soprusi delle forze dell’ordine sia il sostituirle definitivamente con un modello alternativo di sicurezza pubblica basato sulla comunità. Nonostante le differenze tra il modello americano ad il nostro, quello che sembra essere un elemento di continuità tra i due scenari è la perdita di fiducia nei confronti delle forze armate.

Del resto, in Italia si fa ancora fatica ad affrontare concretamente il problema degli abusi da parte delle FdO. Lo scorso marzo, nel pieno dell’emergenza Coronavirus, durante le rivolte nelle carceri sono sono morti ben tredici detenuti e tuttavia è stata sufficiente un’autodichiarazione delle autorità che ne riportasse la scomparsa per “overdose da metadone” affinché la notizia sparisse dai tabloid. Solo pochi giorni fa, ancora, è stata data la notizia di un’inchiesta della Procura di Torino sulle presunte torture ai danni dei detenuti del carcere “Lorusso-Cutugno”, per le quali vi sono tuttora 25 indagati.

L’invito a “restare umani” – che tanto è stato diffuso durante l’emergenza epidemica degli scorsi mesi – non sembra avere lo stesso impatto quando ad essere sotto accusa sono le forze dell’ordine. Di fatto, se queste ultime servono, la loro utilità consiste soprattutto nel tutelare i diritti dei cittadini, gestendo la violenza sociale e non piuttosto facendola nuovamente deflagrare. Per evitare che casi simili possano verificarsi, dovrebbero essere infatti proprio gli stessi organi di polizia, legittimati a poter fare ricorso alla cosiddetta “violenza legittima”, a dover essere sottoposte a controlli rigorosi e stringenti. Ritenere che le forze dell’ordine siano indelebilmente corrotte è errato almeno quanto credere che possano essere totalmente esenti da fenomeni degenerativi, dei quali sono testimonianze i casi sopracitati. Anche in una democrazia non è dunque impossibile che i tutori dell’ordine trascendano l’uso della violenza; è per motivazioni simili che, ad esempio, in Europa quasi tutte le forze dell’ordine sono dotate di un codice identificativo alfanumerico che ha il precipuo scopo di scoraggiare soprusi e identificare i colpevoli in caso di violazione delle norme. Nonostante le diverse campagne, tra le quali anche quella di Amnesty International (lanciata a 17 anni di distanza dagli eventi del G8 di Genova del 2001), in Italia non ci sono mai stati sviluppi sul tema.

Le devianze dei corpi di polizia contrastano dunque quella stessa efficacia burocratica che si vorrebbe avessero e che potrebbero avere più facilmente se vi fosse maggiore trasparenza.  Il caso di Piacenza non è un affare isolato, imputabile unicamente alla presunta meschinità dei singoli indagati. C’è pertanto, come diceva Ilaria Cucchi, un problema interno al sistema stesso; per non negare l’importanza delle forze di potere si ignora infatti che, come spesso si sente dire, il potere può corrompersi. 


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