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Francesco Scuderi, atleta catanese classe 1977, oggi è un allenatore

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Dopo Sydney 2000, la malattia immunitaria vinta «grazie all’eccellenza» dell’ospedale San Carlo. E il ritorno in pista

POTENZA – «In Basilicata ho sempre trovato una situazione eccezionale. Pulizia nelle strutture, ordine nelle città e disponibilità tra la gente. Tanti motivi per tornare sempre con lo stesso entusiasmo della prima volta»: la prima volta dell’atleta Francesco Scuderi, catanese classe 1977, è legata al giorno in cui scoprì – grazie al luminare Ignazio Olivieri, medico del San Carlo di Potenza – di soffrire di una rara malattia immunitaria che gradualmente avrebbe potuto portarlo alla cecità. Era la sindrome di Behçet, piombata nella sua vita alla vigilia di Atene 2004.

Da quell’autunno del 2003 la vita di Scuderi ha preso una piega inaspettata: dopo il settimo posto nella 4×100 alle Olimpiadi di Sydney, addio Olimpiadi, e anche la corsa più difficile – quella “in rimonta” verso Pechino 2008 – non è mai partita ma «grazie a una diagnosi precoce e a cure eccellenti sono potuto tornare in pista».

Che impressione le ha fatto frequentare l’ospedale San Carlo venendo da una grande città come Catania e ancora con l’eco della platea australiana delle Olimpiadi 2000 in testa?

«Sono passati più di dieci anni ma ricordo ancora benissimo la sensazione che provai: sapevo che avrei visto una struttura di eccellenza, ma sentii di trovarmi davvero nel primo presidio d’Italia con un’assistenza funzionale, una grande attenzione ai malati che si tramutava nel farli sentire i soggetti più importanti. E poi il fatto che per un giorno il reparto era per così dire “dedicato” rendeva più facile quei giorni che per me sono stati abbastanza difficili. Oggi il San Carlo è senza dubbio un centro di riferimento in tutta Italia».

La sua storia è esemplare e ha permesso di diffondere i risultati e i progressi nello studio della sindrome di Behçet, ma anche di prevenirne i peggioramenti curandola per tempo.

«Il fatto che io fossi un atleta ha consentito un ritorno d’immagine importante nella sensibilizzazione della malattia. In tutti questi anni sono stati fatti dei grandissimi passi in avanti tanto nel campo medico quanto nell’utilizzo del farmaco. Per la sua sintomatologia così diversificata, infatti, la sindrome di Behçet quando arriva dà vita a una sorta di calvario, con lunghissimi iter di visite che spesso non portano a niente».

«Grazie a una diagnosi precoce e alle cure eccellenti del prof. Ignazio Olivieri sono potuto tornare in pista»

Il suo è un esempio che dà anche speranza a chi soffre, non crede?

«Certo, e tornare a vincere, sebbene non in un’Olimpiade, ha dimostrato che spesso, non solo in questa malattia, la diagnosi arrivata per tempo e le terapie adeguate possono fare ottenere risultati di eccellenza. Certo, i miracoli non esistono e ogni persona reagisce diversamente ai farmaci».

C’è stata una figura importante – simile a quella di Olivieri in ambito medico –nella sua esperienza sportiva?

«Indubbiamente Carlo Vittori, il mio mentore che mi ha seguito nel percorso in federazione. Allenatore di atletica leggera oltre che egli stesso atleta, Vittori ha formato campioni del calibro di Mennea: mi ha trasmesso dei valori come il sacrificio, ad esempio insegnandomi che il campione è in primis un uomo. È l’uomo che fa il campione e non viceversa. Mi piace anche ricordare Sanya Richards, quattrocentista statunitense che come me ha combattuto la mia stessa sindrome».

E della sua esperienza da allenatore cosa le piace di più?

«Il tratto umano, importante quanto quello sportivo: alleno ragazzi tra i 14 e i 16 anni, mi piace trasmettere loro emozioni e assorbire quelle che provano. Soprattutto a quell’età, hanno bisogno di esempi positivi, non sono come dei contenitori da riempire. Noi educatori sportivi dobbiamo tirare fuori la loro forza, che non è solo potenza fisica. E poi, io, ho lottato contro la malattia anche grazie all’atletica».

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