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L’ULTIMO rapporto sull’economia lucana tracciato dal Centro studi di Unioncamere Basilicata, che come un termometro ha misurato la temperatura del tessuto produttivo lucano, nel terzo trimestre del 2013, continua a  darci indicazione di un malato molto grave. La febbre cala, ma non guarisce. Seppure i principali indicatori economici decrescano meno rispetto ai primi mesi dell’anno scorso, continuano ad avere segno negativo. Solo l’8 per cento delle aziende segnala una lieve ripresa. Ma la risalita complessiva rimane molto lontana. Con alcuni settori che soffrono più di altri, ma tendenzialmente accomunate da previsioni non proprio ottimistiche per il prossimo futuro. Nessun segnale di miglioramento, per giunta, per quel che riguarda il lavoro. L’occupazione continua a decrescere. Di 3,5 punti rispetto all’inizio dell’anno. Dall’inizio sono stati 5.000 i posti di lavoro persi. Contemporaneamente aumenta il numero di coloro che, pur essendo inattivi in piena età lavorativa, un lavoro hanno smesso di cercarlo. Diminuisce la disoccupazione “ufficiale”, ma aumenta quella “nascosta”. Insomma, un quadro che rappresenta ancora una regione in profonda recessione.

 

IN materia di politiche del lavoro, non si può non partire dalla constatazione ovvia che per uscire dalla  grave crisi economica regionale  multipla, quella strutturale di lungo periodo e quella più recente, nata nel 2007, importata dagli Stati Uniti,  molto dipenderà, in Basilicata  come altrove, in Italia e non solo, dalla ripresa economica europea, dalla conseguente “ripresina” nazionale e, infine, dalle politiche che il Governo nazionale saprà mettere in campo, rafforzando la cassetta degli attrezzi da offrire alle aziende per creare nuovi posti di lavoro, quali l’ipotizzato contratto unico valido per nuove assunzioni, a prescindere dall’articolo 18, l’apprendistato, l’utilizzo dei fondi dell’Ue di garanzia per i giovani, in materia di formazione e primo inserimento lavorativo, i bonus per gli over 50 disoccupati, ecc.

Sulla “cassetta” personalmente non mi faccio grosse illusioni. Gli incentivi spesso sono dei palliativi e non essendo finalizzati a facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro delle categorie effettivamente svantaggiate, ma attraversando trasversalmente l’intera platea delle persone in cerca di lavoro, nell’ottica di Rigoletto (questo o quello per ma pari sono), finiscono per dare alle aziende la possibilità di decidere in proprio, indipendentemente dalle questioni sociali che la disoccupazione comporta per i lavoratori, per le famiglie e  per gli obiettivi fissati dalla politica.

La nuova occupazione, in realtà, dipende soprattutto  dall’abbassamento della pressione fiscale per le imprese e  dal  contenimento del cuneo fiscale dei lavoratori, al netto delle maggiori aspettative di  crescita della domanda di beni e servizi prodotti dalle aziende.

A scala regionale, i margini di manovra sono limitati, ma pur sempre significativi e complementari a quelli nazionali.

Le imprese, se ci sono, battano un colpo: è scoraggiante sentire la Confindustria lucana appellarsi al rilancio dell’agenda Basilica 2012, ci vuole ben altro. Ci dica, ad esempio, quali sono, a suo avviso,  le condizioni generali per creare qualche azienda multinazionale tascabile, per usare una espressione cara agli economisti, piuttosto che come i propri associati intendano  fare e diversificare i loro investimenti. E’ semplicemente inquietante che l’industria in senso stretto  ricorra in Basilicata  per il 37 per cento al  lavoro irregolare e benefici di diverse centinaia di milioni di euro in un decennio senza creare nuova occupazione. 

Analoga considerazione va fatta per i sindacati. Si vuole fare o no una azione di sensibilizzazione nei confronti dei percettori di ammortizzatori sociali, affinchè escano dagli equilibri precari che riguardano molti di loro, ricorrendo al lavoro sommerso o a quello  di fatto autonomo, ma pur sempre irregolare?

Si può permettere lo Stato di erogare per molti anni (talvolta decenni) cassa integrazione straordinaria o indennità di mobilità a lavoratori che affluiscono nel bacino da cui le imprese attingono per praticare “l’usato sicuro”, ma in nero e dunque a basso costo, negando diritti fondamentali? Non è un caso che ben tre bandi regionali che avevano lo scopo di mobilitare tale segmento di lavoratori siano falliti.       

All’ente regione, terzo soggetto interessato,  spetterebbe, il condizionale è d’obbligo, il compito intanto di chiarire il suo ruolo nell’ambito del complessivo mercato del lavoro, riorganizzando innanzitutto le sue  strutture che vi operano: dai servizi per l’impiego largamente inefficaci ed inefficienti all’osservatorio del mercato del lavoro, un soggetto attualmente misterioso in un contesto di tanti piccoli osservatori settoriali dipartimentali, alla valutazione delle politiche attive e passive spesso affidata più che a risultati positivi effettivamente accertati a considerazioni prettamente autoreferenziali di spesa di dubbia o nulla efficacia occupazionale e formativa.

Decisivo è il suo ruolo di occupatore-datore di lavoro di ultima istanza: sul serio si pensa di continuare ad affrontare la difesa e valorizzazione dell’ambiente, puntando sulla forestazione produttiva che costa circa 70 milioni di euro all’anno tra Regione e Stato, con livelli di produttività del lavoro bassissimi, affidandosi alle aree-programma, ossia al surrogato ancora più negativo delle Comunità Montane? Quando potremo avere qualche cooperativa di forestali che possa reggere sul mercato, assecondando lo spirito della legge regionale che ha disciplinato la forestazione, replicando, ad esempio, iniziative similari come quella di Castiglione d’Orcia sul monte Amiata che ha condizioni similari a quelle dell’Appennino lucano?

Si tratta di tematiche  che vanno ricondotte in un piano pluriennale del lavoro così come prevede la legge regionale 29/98,  uno strumento mai avuto finora (uno dei tanti paradossi di questa regione) , un piano molto concreto, senza voli pindarici come quelli ipotizzati per sviluppare innovazione e trasferimento tecnologico, costruiti con Basilicata Innovazione, una struttura superdimensionata quanto costosa, in rapporto alla domanda in tal senso delle imprese lucane, che ci potevamo risparmiare, avendo già Sviluppo Basilicata che ha compiti più complessivi e quindi più funzionali a sostenere processi organici di rilancio dell’impresa lucana che sono combinazioni tra riorganizzazione produttiva, commerciale e finanziaria e nuovi processi tecnologici.

Il piano per avviare un processo di fuoruscita dalla crisi dovrebbe prevedere progetti, azioni in linea con  ciò che è oggi l’impresa lucana,  e quindi ipotizzare  azioni alla sua portata e spendibili da subito. Il tempo lavora contro la Basilicata.

Ci si riferisce a politiche  che diano o luogo a interventi che privilegino un’alta intensità di lavoro ed il coinvolgimento massiccio della piccola impresa locale  che rappresenta l’ossatura fondamentale dell’economia regionale.

In questa ottica, un diffuso piano casa, orientando in tale direzione parte del risparmio delle famiglie, dirottandolo dall’impiego nei titoli di Stato, la manutenzione del territorio, razionalizzando la spesa forestale, coinvolgendo in tale opera anche i lavoratori beneficiari di ammortizzatori sociali,  il rilancio dell’artigianato e di quello artistico in particolare, il sostegno dell’ente regione agli enti locali con una specifica task force regionale  per valorizzare il loro patrimonio, mobilitando  l’impresa locale (i modi per privatizzare, sia pure parzialmente, le risorse pubbliche locali sono vari, potrei fare molti esempi al riguardo), il maggiore utilizzo della capacità produttiva esistente che non richiede nuovi investimenti per costruire nuovi impianti, ma soltanto modesti interventi di marketing territoriale,   rappresentano importanti filoni di attività per dare consistenti risposte occupazionali, propedeutiche a disegni e prospettive di lungo periodo.

La logica di una politica del genere consiste nel far lievitare i redditi medio-bassi che hanno una maggiore propensione al consumo  per far crescere la domanda interna, attualmente molto depressa, facendo leva  proprio sulla capacità produttiva locale.

I prossimi anni, infine,  saranno decisivi per riformare l’organizzazione regionale.

La riduzione da sei a quattro degli assessorati regionali può essere l’occasione per rivedere l’intero apparato amministrativo della Regione Basilicata, privilegiando i meriti e riqualificando le competenze, dando spazio  alla allocazione ottimale delle risorse, sulla base di una nuova metodologia basata sulla valutazione delle alternative d’uso delle risorse disponibili , privilegiandone  gli effetti occupazionali e non continuando a distribuirle in molti casi in modo clientelare, favorendo progetti improduttivi e/o cristallizzando industrie decotte. 

In conclusione, parafrasando un detto popolare lucano si può sostenere che con la crisi si è chiusa una porta, ma può aprirsi un portone.

Molto dipende dalla voglia della classe dirigente lucana di volersi e sapersi  mettere in discussione, di avere nuove idee, a condizione di accantonare quelle vecchie, operazione quest’ultima difficile, come  ammoniva J. M. Keynes.

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