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di SILVANA GALLUCCI
LA “’ndrangheta” è una struttura complessa e dinamica che, attraverso il consenso ed il controllo del territorio in cui è radicata, si sostituisce allo Stato colmando le sue deficienze e manipolando così le relazioni sociali che su quel territorio si esplicano. Altro suo punto di forza è la valorizzazione criminale dei legami familiari. La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone e attorno ad essa ruota la ‘ndrina. Le donne rivestono un ruolo importante all’interno delle ‘ndrine, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, inoltre, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (e subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”. La struttura di tipo familiare ostacola e contrasta i provvedimenti adottati dalle Istituzioni nella lotta contro la ndrangheta: se la cosca è costituita dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia, già di per sé non facile, diventa lacerante, straziante, quasi un urlo che invade, uno “strappo” che devasta, violenta il corpo e l’anima ; lo/a ‘ndranghetista che decida di collaborare deve necessariamente accusare i propri familiari, il padre, la madre, la sorella, il fratello, il coniuge, il figlio… Quello stesso strappo devono aver provato Maria Concetta, Lea e Giuseppina, le “Malanove”, le portatrici di sventure, le “infami” che, per tirarsi fuori dal sistema, per cambiare il loro destino e per dare un futuro migliore ai propri figli, hanno infranto il muro dell’omertà, hanno violato i “sacri” vincoli della parentela. «Come posso campare così se non posso nemmeno respirare?» ha esclamato Maria Concetta prima di annegare in una bottiglia di acido muriatico il peso della solitudine e la voglia di tirarsi fuori dal sistema; «Mi resi conto che c’era il serio rischio per i miei figli e quindi decisi di ritrattare tutte le mie accuse» ha affermato Giuseppina , tornando a collaborare, dopo un iniziale periodo di smarrimento; «Rinuncio al programma di protezione» ha dichiarato Lea quando il desiderio di rivedere sua figlia Denise ( ora testimone chiave al processo contro coloro che le hanno ucciso la madre) è diventato talmente struggente da farle abbandonare ogni cautela , firmando così la sua condanna a morte. “Solo le donne possono salvare la Calabria” questo il titolo di un superbo articolo di Matteo Cosenza, direttore di questo giornale. Secondo il giornalista, sempre impegnato nel denunciare le illegalità e il malcostume e promotore dell’iniziativa “Tre foto ed una mimosa” , «la forza, l’intelligenza e la determinazione delle donne possono salvare la Calabria». Nella regione delle famiglie solidissime e del patriarcato dominante, spetta alle donne ed alle madri il compito più arduo ed importante: educare alla legalità, nella prospettiva di un futuro governato dal rispetto delle persone e delle regole «senza le quali», come afferma Gherardo Colombo, «non esiste società». E noi donne, direttore, lo faremo, salveremo la Calabria, consapevoli di dover insegnare a chi camminerà dopo di noi che non bisogna lasciarsi vivere, come servi sciocchi di una vita inutile, ma che, al contrario, bisogna essere liberi, «liberi da tutto, tranne che dall’intelligenza e dall’amor proprio». Lo faremo perché i nostri figli non siano costretti ad andar via da un Sud compromesso, colluso, amorale e rinunciatario; lo faremo perché non cambino paese ma perché cambino IL PAESE; lo faremo soprattutto nel nome di Maria Concetta, di Lea , di Giuseppina, in ricordo del loro coraggio, del loro desiderio di riscatto, del loro martirio, del loro esempio e del loro sorriso «che nessun acido potrà mai cancellare».

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