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COSENZA – La messa in sicurezza del fiume Crati che, un anno fa esondando, travolse i campi coltivati e gli scavi di Sibari, potrebbe infrangersi sugli argini delle competenze istituzionali. Lo dice il rapporto sull’attività di valutazione del Ministero dello Sviluppo economico, Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, redatto alla fine dei sopralluoghi e della informazioni raccolte nei mesi successivi all’esondazione. Anche i tecnici, individuati dall’allora ministro Barca, hanno messo in luce come l’intervento principale da fare riguardi la messa in sicurezza del fiume Crati. Solo un’azione coordinata e concreta eviterà, anche in futuro che operazioni di ripulizia e nuove infrastrutture in via di realizzazione da parte del Mibac (per 18 milioni di euro individuati dalla Regione) risultino vane. Tre le principali azioni da intraprendere che riguardano altrettante criticità: la debolezza degli argini, la cura dell’alveo e l’insabbiamento della foce. 

Le competenze sono divise tra Regione Calabria e Commissario straordinario, mentre alla Provincia spetta solo qualche intervento di manutenzione. Per arrivare a tali conclusioni, gli esperti del ministero hanno dovuto lavorare con certosina pazienza tra i labirinti di un quadro legislativo che, in alcuni casi ha dovuto far ricorso ai dettami dei Regi decreti del 1904 in materia di proprietà degli alvei dei fiumi, perchè proprio l’utilizzo dei privati di parti di terreno confinanti con il fiume, coltivati ad agrumeti, è stata una delle cause di mancato contenimento del flusso ingrossato dalle piogge del fiume. Al netto della questione della proprietà di quelle aree, «la presenza di agrumeti nelle golene del Crati sarebbe stata impossibile se fosse stata attivata una costante azione di vigilanza e controllo sulle attività che interessano l’alveo del fiume. Queste attività di “polizia idraulica” sono attribuite dalla legge alle Regioni» spiega la relazione ministeriale. 

Ma la Regione, a sua volta, avrebbe delegato questa funzione in parte alla Provincia, in parte ai Comuni e in parte anche l’Afor, creando così una sovrapposizione che, ai fini pratici, è risultata ingestibile. Pulizia del fiume, da un lato dunque, ancora pieno di alberi secchi, detriti, rifiuti, e cura dell’alveo dall’altro anche mediante l’eliminazione di coltivazioni non autorizzate. Ma c’è anche un terzo fattore che finora non è stato preso nella debita considerazione e che nel rapporto viene alla luce: l’insabbiamento della foce. «La presenza di rilevanti dune sabbiose nella zona della foce del Crati – scrivono gli esperti – è un ulteriore fattore di criticità dal punto di vista idraulico, dal momento che non consente un regolare deflusso delle acque. 
La risoluzione di questa problematica deve tenere conto di aspetti peculiari; il tratto finale del fiume Crati è infatti un Sito di interesse comunitario (SIC), di conseguenza qualsiasi attività che abbia riflessi sugli aspetti ambientali deve essere sottoposta a specifiche autorizzazioni, che rendono più complesse e lunghe le procedure di progettazione ed attuazione di interventi di ripristino della piena funzionalità idraulica di questa area del fiume». I tecnici del ministero spiegano che in passato molti interventi erano stati programmati, almeno sulla carta, ma non portati a termine e anche per loro è stato difficile individuarne i motivi, dato che «nonostante specifiche richieste rivolte all’Ufficio del Commissario (Domenico Percolla, ndr), non sono stati reperiti documenti in grado di definire compiutamente l’oggetto dell’intervento relativo alla sistemazione idraulica del Fiume Crati». 
Ognuno, quindi, dovrebbe fare la sua parte, dato che l’area Cassano Corigliano alla foce del fiume (non dimentichiamolo) è tra quelle a rischio idraulico Pai di tipo R4 e cioè molto elevato (quando sono possibili la perdita di vite umane, danni gravi agli edifici, al patrimonio ambientale). Fare rete, insomma, per superare il labirinto di norme che ostacolano la sicurezza di un intero territorio.
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