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SE improvvisamente si è scoperto che la SiderPotenza sprigiona diossine che superano di due volte quello che è il livello minimo di allarme, per assurdo bisogna dire grazie alla Regione Basilicata che lo scorso febbraio, dopo circa sei anni di istruttoria, ha concesso all’azienda, oggi di proprietà del gruppo Pittini, l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) dopo aver ottenuto anche il via libera dal Comune e dalle autorità sanitarie.

Proprio grazie all’Aia, per legge, infatti,  si è provveduto – lo prescrive la legge –  a installare tre centraline di rilevamento: una a Bucaletto, nelle immediate vicinanze dello stabilimento, un’altra a rione Betlemme sul tetto dell’edificio dell’Asp e una terza in un punto più lontano: a Rossellino.

Centraline che hanno cominciato a catturare le polveri presenti nell’aria. Polveri che poi sono state inviate all’Arpa Puglia, in virtù di un protocollo sottoscritto con l’Arpa Basilicata, che da poco si è dotata di un laboratorio di analisi per verificare la presenza di diossine nell’aria.

E così Potenza ha dovuto prendere atto – i numeri sono messi nero su bianco – che si trova a dover fare i conti con un mostro che, leggendo i dati di inquinamento di impianti come Fenice piuttosto che il siderurgico di Porto Marghera, fa impallidire anche l’Ilva di Taranto.  E così oggi ci troviamo di fronte a un problema – di salute pubblica in primis  – che si sarebbe potuto evitare se solo la classe politica avesse adottato misure sensate. E le occasioni, negli anni, non sono mancate.

Innanzitutto va detto che se oggi la Sider si trova nel bel mezzo della città la colpa non è dell’impianto. Quando la siderurgia approdò nel capoluogo – parliamo della fine degli anni Sessanta – viale del Basento era periferia. Oltre la casa circondariale, infatti, non c’era nulla o quasi. Sicuro non c’erano tutte le abitazioni e le palazzine che vediamo oggi, compreso l’edificio che oggi ospita l’Asp dove, per ironia della sorte, è stata sistemata una delle tre centraline e dove si effettuano le vaccinazioni ai bambini.

Il 23 novembre del 1980 c’è il terremoto. C’era la necessità di sistemare i prefabbricati per ospitare quanti avevano visto le loro abitazioni distrutte dal sisma. C’è chi propone, nel corso di un vertice alla presenza dell’allora ministro alla Protezione civile, Giuseppe Zamberletti, di sistemare i prefabbricati a Piani del Mattino. Passò, invece, la “mozione” Bucaletto. Prima mossa sbagliata di una lunga serie.

Prima la ricostruzione e poi, intorno al 1989 – all’epoca il sindaco era  Gaetano Fierro –  approvazione della variante al Piano regolatore della città.

Nel novembre del 1989 la magistratura prova a occuparsi della questione Sider che nel frattempo era stata acquistata dal gruppo Lucchini.

Il giudice  Pasquale Materi ordina il sequestro dello stabilimento. All’allora direttore fu contestato il reato di disastro doloso continuato. Il magistrato gli contestò di non aver impedito che, a causa dell’inadeguatezza di alcuni impianti antinquinamento, si determinassero, all’interno e all’esterno dello stabilimento, condizioni di pericolo per la pubblica incolumità. L’inchiesta finì con l’archiviazione e dopo poco il giudice Materi venne anche trasferito.

Intorno alla Sider continuarono a spuntare come funghi palazzine su palazzine che trasformarono la periferia in una zona abitata. Zona che con gli anni è diventata parte integrante della città e dove non si contano più le nuove abitazioni costruite. Per non dire di Bucaletto che, cessata l’emergenza post terremoto, non è stata mai abbattuta. Anzi, oggi, grazie al “Piano città” si è pensato bene di costruire due palazzoni per fronteggiare l’emergenza abitativa per le fasce più deboli.

Nei primi anni Novanta in Regione, presidente Tonio Boccia, si comincia a ragionare sulla delocalizzazione dell’impianto. Alcuni propongono la Valle di Vitalba – proposta bocciata dal gruppo consiliare del Pci – poi viene approvata una delibera – oggi ancora valida – in base alla quale, d’accordo anche il consorzio Asi – lo stabilimento avrebbe potuto trovare spazio nella zona industriale di Tito scalo.

Poi qualcuno caccia dal cilindro il progetto dell’Interporto. Progetto che, come è noto, è finito su un binario morto.

E così l’impianto siderurgico  oggi di proprietà della Pittini – che a onore del vero non si è mai detta contraria a una delocalizzazione – continua a inquinare. E dire che il Comune non solo avrebbe potuto, insieme all’Asi, dare seguito alla delibera della Regione, ma poteva anche, come accaduto per Genova e Porto Marghera, chiedere e ottenere finanziamenti ad hoc per la delocalizzazione dello stabilimento.

a.giammaria@luedi.it

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