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POTENZA – Sono loro i killer di Pinuccio Gianfredi e della moglie Patrizia Santarsiero: i vertici del clan che voleva sovvertire gli equilibri della mala lucana. Il potentino Antonio Cossidente, il suo braccio destro Carmine Campanella, il filianese Angelo Nolé e il melfitano Alessandro D’Amato.
Lo ha deciso il gup di Salerno Elisabetta Boccassini che ieri pomeriggio ha emesso il verdetto sulle accuse per il duplice omicidio che il 29 aprile del 1997 ha scosso Potenza: una tranquilla città di provincia sconvolta da un agguato di stampo mafioso, consumato davanti agli occhi dei due figli della coppia.
Diciotto anni dopo è arrivata la prima condanna per uno degli esecutori materiali, il melfitano Alessandro D’Amato (44), che nell’estate del 2010 si è pentito e ha confessato questo e altri 4 omicidi collegati alla faida tra i clan del Vulture. D’Amato dovrà scontare 16 anni di carcere, invece dell’ergastolo che era stato chiesto dall’accusa, per i benefici della sua collaborazione e della scelta del rito abbreviato.
Stessa pena anche per il potentino Antonio Cossidente (50), l’ex boss della calciopoli rossoblu e dei rapporti pericolosi con la politica e i servizi segreti, che ha iniziato a collaborare subito dopo D’Amato, e ha ammesso di aver organizzato l’omicidio per «mandare un segnale» ai vecchi padrini del crimine lucano.
I giudici hanno creduto alle loro accuse ai vertici della “famiglia basilischi” il superclan tutto lucano che doveva “liberare” la Basilicata dalle ingerenze delle organizzazioni criminali calabresi e campane. Per questo sono stati condannati all’ergastolo il potentino Carmine Campanella (52), che avrebbe effettuato i sopralluoghi sotto casa di Gianfredi, e il filianese Angelo Nolé (64), che oltre ai sopralluoghi avrebbe fatto da tramite tra Cossidente e i melfitani.
Il gup ha accolto la richiesta di non luogo a procedere avanzata dalla procura nei confronti del pignolese Saverio Riviezzi (51), indicato tra i mandanti, ma di fatto “scagionato” da alcune contraddizioni nelle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia. Mentre per il fondatore della “quinta mafia” Gino Cosentino (60), ex collaboratore di giustizia originario di Chiaromonte, che ha optato per il rito ordinario, deciderà a ottobre sul rinvio a giudizio.
Di rientro a Potenza il difensore di Campanella, Gianfranco Robilotta, ha parlato di «una sentenza inaspettata, che sarà certamente impugnata». L’avvocato ha espresso la sua contrarietà anche sulla gradazione delle pene, un punto su cui si è mostrato perplesso anche il legale di parte civile, Gianpaolo Carretta, che ha assistito il fratello di Patrizia Santarsiero.
«Dopo 18 anni – ha dichiarato l’avvocato esprimendo grande soddisfazione – c’è finalmente una sentenza su uno dei fatti di sangue più cruenti che ha sconvolto la città di potenza, anche per le sue dinamiche data la presenza dei figli minorenni delle vittime rimasti illesi soltanto per circostanze fortuite». Ad ogni buon conto ha precisato che la famiglia Santarsiero non ha intenzione di avanzare una richiesta di risarcimento danni all’esito del giudizio definitivo. «L’unico scopo della nostra presenza è stato sempre e soltanto l’accertamento della verità».
Il fascicolo sull’omicidio di Parco Aurora con le confessioni dei due pentiti era tornato a Salerno agli inizi del 2011. Un trasferimento per questioni di opportunità, viste le accuse – poi smentite – rivolte nel 1999 da un altro ex collaboratore di giustizia al consigliere comunale, ed ex dg dell’ospedale San Carlo, Michele Cannizzaro. Proprio mentre la moglie magistrato, Felicia Genovese, prestava servizio a Potenza come pm antimafia.
Stando a quanto dichiarato da D’Amato, Cossidente e Riviezzi l’avrebbero “reclutato” tramite i loro referenti del melfese, e l’agguato sarebbe stato la sua “prova del fuoco”. Mentre il secondo sicario, un pregiudicato potentino deceduto nel 2013, aveva già sparato sei mesi prima. Obiettivo: Michele Danese, un “basilisco” che aveva sgarrato rifiutando di sfregiare sua sorella per vendicare l’onore del compagno. Che poi sarebbe stato il boss Cosentino.
Anche Cossidente aveva ripercorso con gli investigatori l’agguato e il suo antefatto, spiegando di aver organizzato il tutto perché era deciso così dal capo del nuovo clan: bisognava colpire i “vecchi” che gestivano gli affari criminali nel capoluogo, capeggiati da Renato Martorano. Ma all’epoca erano quasi tutti in carcere, così la scelta è ricaduta su Gianfredi considerato l’«eminenza grigia» del gruppo. Mentre la morte della moglie Patrizia Santarsiero sarebbe stata soltanto un errore, dovuto alla mira difettosa del secondo sicario armato di un fucile a canne mozze.
Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni.

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