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POTENZA – «Quando è avvenuto l’incidente su quel tratto di strada c’era un effetto saponetta perché durante i lavori non era stato steso un manto d’usura. Il progetto lo prevedeva ma in corso d’opera è stato stralciato, come pure la segnaletica. Ma non si può stralciare l’incolumità delle persone. Piuttosto lascino le mulattiere».
Il pm Annagloria Piccininni è il magistrato che ha portato a processo collaudatori, responsabile e direttori dei lavori sulla Sp83 Baragiano-Picerno. I romani: Ugo D’Angelo, Massimo Ruopoli e Giovanni Rabito. E i lucani: Rocco Continolo, Rocco D’Amato, Pasquale Giorgio, Gaetano Schiavone, Raffaele Vita, Serafino Zappacosta e Francesco Fortunato. Ottenendo la condanna per tutti a 4 anni di reclusione (di cui 3 già indultati) per la morte di due ragazzi di Bella nel 2001. Ci sono voluti 14 anni ma alla fine del giudizio di primo grado l’accusa di omicidio e disastro colposo ha retto. Una decisione importante anche per i familiari che se fosse confermata potrebbero vedersi risarciti almeno di una parte delle sofferenze patite in tutto questo tempo.
«Vedremo se verrà proposto appello poi si faranno i conti». Avverte il pm, che ha già una carriera alle spalle a difesa delle fasce deboli e un futuro nei reati contro la pubblica amministrazione.

Siamo di fronte a dei collaudatori che di fatto non hanno collaudato nulla?

«Dicono che non era compito loro collaudare e che dovevano solo predisporre tutto. Poi sarebbe stato compito della Provincia provvedere. Ma non è così».
Comunque nessuno si è accorto che qualcosa non andava.
«Va dato merito a chi in Provincia ha fatto la progettazione esecutiva, che era ottimale nonostante morfologia del territorio: l’ingegnere Domenico Santoro e i geometri Antonio Cogliandro, Carmine Albano e Giuseppe Podano. Ma in fase di esecuzione c’è stata una serie di varianti che hanno stravolto il loro lavoro. Ben 3 perizie di variante dovute a sorprese geologiche emerse decespugliando i pendii, la costruzione di nuove barriere di sicurezza e uno svincolo a Picerno».

Quindi i soldi sono finiti e s’è dovuto tagliare da qualche parte?

«Esattamente. Si costruisce senza pensare alle misure di sicurezza. A cominciare dal tappetino d’usura. E’ così che nascono le “strade della morte”. Dobbiamo ricordarci che chi esce di strada e rimane incolume dopo un incidente non va in caserma. Perché spesso l’automobilista non è in grado di valutare se è in torto lui o è la strada ad essere pericolosa. Quindi i numeri non raccontano la verità perché si fermano ai sinistri con feriti. Comunque in sede di collaudo andava verificato proprio che la strada avesse le caratteristiche del progetto. Per questo sono stati pagati. Invece la segnaletica favoriva l’accelerazione in un punto dove andava limitata e nell’atto sono messe in evidenza alcune mancanze eppure l’opera viene collaudata».

In aula le difese hanno puntato molto sul mancato sequestro della strada. Se era così pericolosa perché non l’avete fatto?

«Il sequestro preventivo è stato chiesto ma non è stato concesso dal gip per non isolare due paesi. Poi sono partiti i primi avvisi di garanzia e hanno messo una serie di segnali. Uno addirittura con una mano nera che non avevo mai visto nella mia vita. Se dopo non ci sono stati più incidenti è per questo».

A che velocità andava l’auto delle due vittime: Antonio Matone e Pasquale Rosario Ferro?

«Andavano piano, è stata la macchina a pattinare a causa del manto stradale».

l.amato@luedi.it

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