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“MA dico io: la gente lo sa quanto costa un caffè in Romania? Lo sa che far camminare un’auto costa a Bucarest un quarto di quel che costa in Italia? Che per un litro di benzina ci vogliono 45 centesimi contro i 180 necessari nel nostro Paese? Provateci voi a vivere con cinque, seicento euro al mese, e poi ne riparliamo”.

Fernando Mega, segretario della Fillea Cgil (la Federazione del legno) di Matera, è furioso. Furioso e indignato. La ragione?  “Libero”, “Corriere della Sera” e “Quotidiano della Basilicata” raccontano che Pasquale Natuzzi, l’ex re dei divani, allo scopo di salvare il salvabile di quello che fu un impero, chiede ai suoi operai il sacrificio estremo: accettare gli stessi salari che l’azienda paga ai dipendenti rumeni. Il che vuol dire (considerato che il costo al minuto del lavoratore in quel Paese è di 30 centesimi contro i 90 italiani): stipendi equivalenti a un terzo di quelli che si pagano al di qua delle Alpi.

Il sindacalista scorre i titoli dei quotidiani sparsi sul tavolo in redazione e commenta, affranto: “Tutto ciò è mortificante. Non soltanto per il sindacato. Ma anche per il cittadino. E dire che da parte nostra c’è la disponibilità a fare tutto il possibile. Ma nella chiarezza. Qui siamo oltre la decenza”.

Sì, vabbé. Ma voi che cosa controproponete?

Ma vede, noi non siamo tenuti a fare proposte. Non è il nostro compito. E’ l’imprenditore che ci deve dire: “Vogliamo produrre così e così”. Poi, da parte nostra, e lo abbiamo dimostrato, c’è la massima apertura. Sappiamo bene che la situazione del gruppo è gravissima. Il fatto è che il piano presentato a suo tempo da Natuzzi non mette soltanto a rischio i 1726 dipendenti (di cui 800 e passa, circa la metà sono già fuori) ma l’azienda stessa. Pensare di tenere in piedi un assetto produttivo di quelle dimensioni con qualche centinaio di lavoratori è un assurdo. Quello è un piano della disperazione.

Però, converrete che esiste un problema oggettivo di competitività al quale occorre dar risposta…

Sì, e Natuzzi infatti vuol andare via dall’Italia. Noi non vogliamo questo. Perciò gli diciamo: trattiamo su un piano industriale che ti consenta di restare qua, purché questo avvenga in modo corretto e trasparente. Noi siamo pronti a discutere sui contratti nazionali del lavoro, sull’organizzazione produttiva. Ma non si possono sparare balle come quella delle paghe rumene. Dopo una cosa del genere ci ritroveremmo in una jungla. Qualunque impresa, il giorno dopo, si sentirebbe autorizzata a dire: “Perché lui sì e noi no?”.

Quella del modello rumeno è una sparata di Natuzzi, dice lei. Ma lo stato reale delle trattative qual è?

C’è una trattativa che riguarda il costo del lavoro, ma non in quei termini rozzi. Da parte aziendale si sottolinea la difficoltà di portare in Italia determinate linee produttive. Ma si tratta di linee (le quali dovrebbero sostituire il segmento produttivo che non tira, quello dei divani di lusso) che hanno margini di ricavo assai ridotti. Il problema consiste, per l’appunto, nello squilibrio tra il nostro costo lavoro e quello rumeno (il rapporto, come si sa è di 4 a 1). Se io voglio realizzare un divano che costa 1.300 euro invece di 3.000, è chiaro che l’incidenza del costo della manodopera è maggiore.  Ed è per questo che, grazie alla mediazione del Ministero siamo pronti a intavolare una discussione sulla possibilità di abbassare questo costo da 90 centesimi a 50. Però qui bisogna essere chiari. Quando si parla di costo del lavoro non si parla del salario.

E di che cosa si parla?

Di una questione che è nell’agenda politica nazionale. E che il Governo sta tentando di affrontare intervenendo sul cuneo fiscale (la differenza tra la busta paga del lavoratore e il costo per l’impresa, ndr). Non si tratta di intervenire sui 1.200 euro di salario, uno stipendio ormai da sopravvivenza alimentare. Il fatto è che ogni euro di guadagno ne costa 2.10. E’ sulla differenza, sul quell’euro e dieci che si deve intervenire e limare. Tagliare i salari sarebbe un colpo mortale per la nostra economia. Non che tagliare, nel pubblico impiego sono cinque anni che non rinnovano i contratti. Con quale risultato? Che la classe media ha visto erodersi del 18 per cento la sua capacità d’acquisto. E abbiamo una crisi dei consumi senza precedenti nel Dopoguerra. E in questa situazione che si fa? Ci si mette va discutere dei salari rumeni? E il sindacato che deve fare? Aprire un fronte alla miseria generalizzata?

Insomma la strada è: sgravi fiscali e contributivi…

 E guardi che Natuzzi di aiuti dallo Stato ne ha già avuti, eccome. Sono dieci anni che questo signore fabbrica cassa integrazione. Ed ha utilizzato tutti gli sgravi previsti a suo tempo dalla fiscalità di vantaggio per il Sud. Non è che tre o sei mesi fa nel suo gruppo lavorassero 4 mila persone. Da almeno dieci anni, dicevo, ci sono oltre ottocento dipendenti in cassa integrazione a zero ore, che ormai sono soltanto dei numeri di matricola. Altri sette-ottocento, invece, lavorano a rotazione alternandosi con i restanti duemila, anche loro in cassa integrazione.

Sì, ma anche la Fiat…

E’ vero, anche la Fiat non fa che chiedere proroghe di cassa integrazione. E tenta di forzare gli istituti della contrattazione nazionale. Ma non si sogna neanche lontanamente di toccare i salari. Marchionne dice: io voglio avere la possibilità di contrattare accordi aziendali. E, a dirla tutta, se quegli operai lavorassero, invece di stare in cassa integrazione, guadagnerebbero anche di più di quanto previsto dal contratto nazionale di lavoro.

E allora, che fare?

Dato il dramma del lavoro in Italia, e del Mezzogiorno – un dramma nel dramma –  in particolare, occorerebbe rilanciare quella fiscalità di vantaggio  che, negli anni Novanta, ha avuto un ruolo non secondario nella crescita produttiva e occupazionale di queste zone. E tutte le imprese, a cominciare dalla Natuzzi, hanno potuto approfittarne. Ricordo quando vennero quelli della Chateau d’Ax. Prima che esplodesse il fenomeno murgiano, quello del divano era un polo che la faceva da padrone nella Brianza. Ma alle imprese lombarde serviva manodopera a basso costo. E allora, grazie agli incentivi previsti appunto dalla fiscalià di vantaggio per le aziende disposte a investire nel Mezzogiorno, grosse produzioni si spostarono al Sud. Quello che accade ora con la Romania.

E i contratti di programma?

I bandi sono pronti. Mancano le imprese che abbiano la voglia e la capacità di investire. Eppure ci sono 100 milioni di euro disponibili. Ma questi soldi devono servire  a rilanciare l’occupazione non a rimpinguare aziende che poi finiscono per licenziare o per chiudere. Allora tanto vale usarli in assistenza. Almeno si fa mangiare un po’ di gente e si dà una mano ai consumi.

Senta, ma per chi resterà fuori quali prospettive si intravedono?

Circa il 50 per cento degli esuberi è ormai, di fatto, fuori da anni. Ora andrebbe in mobilità per due o tre anni. Abbiamo ammortizzatori sociali, per loro fortuna, abbastanza generosi, no? Ma uno che non  lavora da anni si dovrebbe essere già posto il problema di che cosa fare.

a.grassi@luedi.it

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