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PETILIA POLICASTRO (KR) – Si è tolto la vita Giuseppe Venturino, il padre di Carmine, il pentito che ha fatto rinvenire i resti di Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa, bruciata e sepolta in un tombino nel novembre 2009 vicino Monza. L’uomo, 59 anni, operaio forestale, è morto ieri all’ospedale di Crotone dove era stato portato lo scorso 24 maggio in seguito a un tentativo di suicidio per il quale ha riportato gravi conseguenze. Pare che fosse rimasto particolarmente turbato dopo aver visto, la sera prima, una trasmissione televisiva nel corso della quale è stata ricostruita la vicenda di Lea e sono stati mandati in onda alcuni passaggi della testimonianza del figlio che descriveva le modalità agghiaccianti con cui fu distrutto il cadavere, nel magazzino dell’orrore.
L’uomo, che lascia anche un altro figlio e la moglie Caterina, pare fosse uscito di casa la mattina dopo dicendo che sarebbe andato a uccidersi. Sono stati alcuni amici a ritrovarlo nella località Cerasara: hanno prima spezzato la corda con cui l’uomo aveva tentato di uccidersi e poi hanno contattato un’ambulanza. Giuseppe Venturino non si è più svegliato dal coma. Pare che il pentito fosse andato a far visita, scortato, al padre in rianimazione. Secondo alcune testimonianze, l’uomo era particolarmente provato per la vicenda in cui è stato coinvolto il figlio.
Nel febbraio 2013 insieme ad altri familiari inviò una lettera al Quotidiano con cui prese le distanze dalla scelta di collaborare con la giustizia. E Carmine Venturino rispose a «quella che una volta era la mia famiglia», come scrisse il pentito in un manoscritto inviato al nostro giornale, per precisare: «non sono un infame, perché non ho calunniato nessuno». Proprio in seguito alla collaborazione con la giustizia Carmine Venturino, nel maggio dello scorso anno, ha avuto ridotta a 27 anni di reclusione la pena dell’ergastolo inflittagli in primo grado. Prima delle rivelazioni gli inquirenti ritenevano che Lea Garofalo fosse stata sciolta nell’acido. E’ stato il pentito a far rinvenire i resti e a chiarire che Lea fu strangolata con un cordino che attivava il meccanismo di chiusura di una tenda, in un appartamento in via Fiorvanti a Milano. Quel che rimase del pezzo di cordino, Carmine Venturino lo bruciò in un posacenere. Il giovane, ex fidanzato di Denise, la figlia di Lea, indicò gli esecutori materiali in Carlo e Vito Cosco e riferì di aver avuto l’incarico di prelevare il cadavere insieme a Rosario Curcio e di condurlo in un terreno dove iniziò la distruzione.
«Abbiamo preso il cadavere aprendo da un lato lo scatolone ed abbiamo messo il cadavere dentro il fusto, spingendo il corpo in modo che non uscisse – è detto nel verbale agli atti dell’inchiesta – Lo abbiamo messo a testa in giù, a livello del bordo superiore si vedevano le scarpe. Nel fusto abbiamo messo anche la borsa che aveva la Garofalo. Il cartone lo abbiamo bruciato nello stesso fusto. Abbiamo versato parte della benzina sul cadavere e abbiamo dato fuoco».
Così si cancellano dalla memoria collettiva gli “infami”, coloro che, nel gergo ‘ndranghetistico – anche se agli imputati non è stata contestata alcuna aggravante mafiosa – collaborano con la giustizia, come aveva fatto Lea che aveva fatto dichiarazioni su un omicidio, quello di Antonio Comberiati, commesso a Milano nel ’95, incolpando Carlo Cosco e suo fratello Giuseppe, tra i condannati all’ergastolo.

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