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Era un sabato di trent’anni fa quando il poeta potentino Beppe Salvia decise di farla finita. Aveva appena trent’anni e un futuro radioso da percorrere. Chi era Salvia? Si tratta di «uno dei più importanti poeti italiani contemporanei – ha ricordato ieri minimaetmoralia, autorevole blog della casa editrice Minimum Fax –. Poco conosciuto e riconosciuto in vita, dal 1985 a oggi molti hanno capito quanto è stato centrale soprattutto per la scena letteraria romana».
Dieci anni fa, in occasione del ventennale della morte, l’amico Mauro Biuzzi mise in rete un sito dedicato, utilissimo ancora oggi per i tanti che non conoscono il poeta e imperdibile dal punto di vista archivistico: da segnalare la sezione in cui sono riprodotti frammenti e memorabilia, tra versi e grafica, tratti dagli otto numeri della rivista “Braci”, esperimento dal basso di poesia militante nel senso meno politico del termine.
Salvia si suicidò «gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico», scrisse Marco Lodoli – altro amico del periodo romano e fondatore, con lui e gente come Arnaldo Colasanti e Gino Scartaghiande, proprio di “Braci” – su Paese Sera. Raccontando «la difficile vicenda umana e artistica di un bravo autore che non riuscì mai a pubblicare un libro», Lodoli ricordò della volta in cui scappò all’ultimo minuto durante il Festival dei poeti al Parco dei Daini, dove avrebbe dovuto recitare dei versi.
In quello stesso paginone della sezione “Più” del quotidiano romano, Colasanti chiosava: «Salvia componeva il verso come uno sperpero di luce. (…) E’ stato per noi, e certo per me, il contorno di un sogno; ancora una volta il senso di una poesia che è e può essere certezza e conoscenza. Così quella sua lingua intrecciata da suoni, fatta di sibili e torsioni continue, come consonanti sonorissime che non intorpidiscono ma dilatano e quasi candidamente aggiungono nuove nuvole e nuovi tempi alla voce della poesia, non era dunque la cerimonia di un velo funebre sul nulla».
Ed Edoardo Albinati, nel tracciare il suo carattere schivo, descrisse lo status stesso di poeta negli anni del riflusso, anni difficili benché vissuti nella Capitale; lo definì «uno dei poeti più dotati e amati e non solo della sua generazione», aggiungendo che «conduceva una vita isolata e precaria, nutrita dalla sua poesia e poco d’altro. Negli anni il suo canzoniere era venuto formando un libro, un libro denso e ricco che però siamo costretti solo a immaginare: Salvia recalcitrava a mettere ordine tra le sue poesie, che conservava in fogli spiegazzati nelle tasche della giacca; spesso leggeva ai redattori delle riviste letterarie liriche bellissime che poi distruggeva, o che finivano smarrite. (…) Mai come ora un poeta vive senza protezioni, spiantato da qualsiasi mestiere, e se egli rinuncia ad affondare radici altro che nella sua vocazione, se non trova àncore mondane e “altri” affetti – una compagnia, un credo terrestre, un senso fuori dalla letteratura – ebbene, egli rischia grosso, rischia tanto. La terra di nessuno è dunque un luogo di spettri, dov’è difficile, disumano soggiornare». Della sua produzione, Albinati disse che aveva «una grazia bruciante, quasi offensiva».
A Salvia è dedicata anche una pagina fb. (euf)

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