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Volendo individuare quale sia stata la narrazione che ha caratterizzato la campagna elettorale che ha preceduto le elezioni regionali si fa veramente fatica. E’ stato tutto un diluvio di slogan, hastag, “idee di vendita”, posizionamenti, una pacchia per gli uomini del marketing. Si sono visti tentativi forsennati di definire profili originali, diversi, giusti, accattivanti, decisivi. Un parossismo comunicativo che si è spesso tradotto, paradosslamente, nell’: “aumento delle royalties”, “più lavoro”, “tutela dell’ambiente”, “riforma della macchina amministrativa” e così via. Sorprendentemente, o forse neanche troppo, è mancato l’unico racconto che sarebbe stato lecito attendersi, considerato il prologo della campagna elettorale. Una story da impostare su una premessa ed una conseguenza.

La premessa avrebbe dovuto essere “l’apologia del rinnovamento”, declinata attraverso la scelta, largamente praticata, di non ricandidare gli ex consiglieri regionali. Una roba forse mai accaduta prima, nella storia delle regionali di Basilicata. Invece, nessuno, o quasi, che abbia rivendicato come un merito quella decisione, nessuno che ne abbia fatto il cavallo di battaglia per provare a ricucire un rapporto con l’elettorato fortemente compromesso da una generale crisi di fiducia. Eppure venivamo dal “vaso colmo” di rimborsopoli, da una spaccatura nel Pd solo di poco evitata, proprio su questi temi, da una fase storica che, com’è stato giustamente osservato, contiene in se una triplice crisi, della società, delle istituzioni e dei partiti. La conseguenza avrebbe potuto essere “l’esaltazione della squadra”, rinnovata, anzi, fior di conio. Dal punto di vista della campagna elettorale, praticamente un’occasione unica per mettere in campo uno schema classico della propaganda: prima si spiega agli elettori cosa non va nel territorio e in coloro che lo hanno governato; quindi si indica il rimedio per quel problema e come sarà il territorio dopo che quel problema sarà risolto; infine, la parte più importante, perché quella squadra e solo quella squadra ci porterà lì. Ma viene da chiedersi: erano squadre coese o solo comitati elettorali le coalizioni che si sono presentate alla competizione? Nei giorni scorsi, in occasione delle commemorazioni per i 50 anni dall’assassinio di Jfk, più di tutte mi colpiva la dimensione dell’epica kennediana legata al governo del Paese come governo di un gruppo di amici. In quel caso tutti giovani e brillanti che in maniche di camicia e cravatte allentate guidavano gli Stati Uniti d’America. Nelle nostre elezioni regionali “la squadra” non è pervenuta.

Perché, viene da chiedersi, il canovaccio comunicativo ha virato in altre direzioni? Interessava a qualcuno ridurre la frattura fra politica e corpo elettorale? Era vera battaglia ideale o solo strumentale quella condotta in nome del rinnovamento a tutti i costi delle classi dirigenti? Domande che rimarranno senza risposta o che forse la troveranno con la prova dei fatti che accadranno nella prossima consiliatura. Quello che è certo è che ad un approccio comunicativo magari retorico ma più centrato sulla ricucitura di un rapporto compromesso con l’elettorato si è preferita la tradizionale campagna elettorale “ventre a terra”, fatta di decine di migliaia di telefonate, di relazioni corte,  di marcamento a uomo, dove ciò che conta sono i voti e dove conti solo se i voti ce li hai.

Eppure col tema dell’astensionismo bisognerà confrontarsi. Coloro che non sono andati a votare costituiranno gran parte di quel popolo che, ormai da qualche tempo, alimenta la “democrazia dell’interdizione”. Quando finisce l’illusione di poter esercitare il potere, direttamente o tramite i propri rappresentanti, subentra un’esigenza rancorosa di controllarlo. E’ l’esercizio, più che altro, di un potere ispettivo finalizzato ad impedirne un uso improprio, a sbandierarne gli illeciti, a rivelarne le trame, a limitarne dal basso gli abusi, il malaffare. E’ una democrazia della sanzione nei confronti del potere, è la sua continua stigmatizzazione, anche al di la dei demeriti reali.

Sul punto ho letto con interesse l’articolo di Ernesto Belisario, qualche giorno fa, sulle colonne di questo giornale e ne condivido totalmente le premesse. L’auspicato approdo a quella che lui definisce “democrazia collaborativa” in luogo della tradizionale delega degli amministrati agli amministratori mi pare ancora un’opzione solo teoricamente praticabile. Il confronto continuo è sicuramente uno strumento da utilizzare, non prima, però, che la politica abbia recuperato credibilità e riconoscimento. Oggi, così soverchiata dalle dinamiche economiche e della globalizzazione, ha perso la sua primazia, il suo ruolo di solutrice di problemi. In questo quadro è pura illusione l’idea che si possa rispondere a questo disagio profondo col nuovismo fine a se stesso che, infatti, quand’è solo di facciata, non viene nemmeno rivendicato come un merito.

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