X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

L’UNIVERSITÀ DEGLI Studi della Basilicata si accinge a vivere una stagione di intenso dibattito interno in preparazione alla scelta del mio successore. Si voterà alla fine di maggio e si continuerà a votare, eventualmente, fino alla fine di giugno. Il nuovo rettore mi subentrerà il prossimo primo ottobre.

Ma prima che la scena sia presa da questioni più propriamente accademiche, con le giuste e auspicabili riflessioni sulla missione di alta formazione o di ricerca scientifica, o ancora sul ruolo che la stessa università possa e debba svolgere in Basilicata a poco più di trent’anni dalla sua istituzione, mi preme richiamare l’attenzione su una vicenda che, pur involvendo aspetti prima facie soltanto giuridico-amministrativi, mina profondamente la funzionalità stessa della nostra università.

 Mi riferisco al recente annullamento degli inquadramenti professionali rivenienti dalle procedure di progressione economica verticale (Pev) che si sono perfezionate nel nostro Ateneo nel lontano 2005, in danno di oltre cento dipendenti di ruolo, con relativa (e per molti consistente) decurtazione dei livelli stipendiali.

Tutto quanto come inevitabile conseguenza, stante la limitatezza dei poteri amministrativi dell’Ateneo e l’obbligo di ottemperare a un pronunciamento passato in giudicato, dell’ormai nota sentenza della Sezione I Giurisdizionale Centrale della Corte dei Conti (n.52/2012), che ha pronunciato giudizio di responsabilità a carico degli allora componenti del Consiglio di Amministrazione dell’Unibas in ragione dell’illegittimità delle suddette procedure di progressioni per “saltum”.

A nulla sono valsi i reiterati tentativi, anch’essi commentati a suo tempo dagli organi di stampa, di evitare per via legislativa che una sentenza volta a sanzionare un provocato nocumento erariale, ascrivibile a fatti molto risalenti nel tempo, avesse così forti conseguenze, certamente indesiderate o almeno non pienamente considerate dalla giustizia contabile, sulle fondamenta della nostra istituzione universitaria. Di fatto, nelle passate settimane si sono dovuti decapitare i vertici, e non solo essi, di servizi assolutamente cruciali per il funzionamento dell’università, seppure nella sostanziale impossibilità di individuare soluzioni alternative che potessero e possano assicurare il rispetto del principio del “buon andamento” dell’apparato tecnico-amministrativo dell’Ateneo, atteso che più di un terzo dei dipendenti che compongono la dotazione organica è stato interessato dal demansionamento e che molti tra i predetti, sinora preposti a rilevanti funzioni di responsabilità, dispongono di competenze e di professionalità non fungibili. Senza considerare il dramma psicologico e motivazionale vissuto da chi, nel periodo di crisi economica e sociale che attraversa il Paese, si vede sottrarre diverse centinaia di euro al mese da una busta paga che supera di poco i mille.

A tutto questo va ad aggiungersi la circostanza che la pendenza di cause giuslavoristiche e il blocco legislativo all’incremento degli emolumenti accessori e del trattamento economico fondamentale del personale di comparto hanno precluso alla nostra Università l’indizione di bandi per progressioni interne di carriera per oltre dieci anni, con ciò concorrendo ad accentuare i già significativi riverberi di un processo di generale depauperamento del pubblico impiego (le ultime progressioni economiche orizzontali nel nostro Ateneo – oggetto di una recente procedura di rinnovazione, che è valsa a sanare i profili d’illegittimità rilevati dalla Sentenza n. 123/2010 della Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Basilicata – datano 2003).

Sul piano più generale resta da osservare che, nel caso in questione, non potrà esservi serenità, né personale né collettiva, fino a quando non saranno definiti tutti i gradi di giudizio dei contenziosi che origineranno dai ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi di annullamento degli inquadramenti censurati dalla citata Sentenza n. 52/2012 della Magistratura contabile.

Non è certamente in discussione la fondatezza giuridica del pronunciamento, nei confronti del quale non posso che portare profondo rispetto.

 Credo, tuttavia, che il nostro ordinamento giuridico mostri un elemento d’incongruenza nel fatto che una sentenza della Corte dei Conti, per definizione “giusta” nei confronti dei sanzionati (nel caso di specie gli amministratori Unibas dell’epoca), lasci aperte autostrade per un diffuso contenzioso dinanzi al Tar o al Giudice del Lavoro da parte di soggetti terzi (nel caso di specie il personale demansionato) che quella sentenza hanno subito senza aver potuto esercitare alcun diritto di difesa nel contenzioso che l’ha generata. Ritengo, infatti, che ognuno degli oltre cento lavoratori, re-inquadrati in categorie professionali inferiori e danneggiati sul piano economico, che hanno da sempre legittimamente confidato nella bontà delle procedure valutative di allora e retribuiti per quasi dieci anni in ragione di uffici effettivamente svolti, abbia il diritto di far valere le proprie ragioni innanzi a un ramo della giustizia diverso da quello già pronunciatosi sui medesimi accadimenti, perché un nuovo giudizio possa nuovamente valutare in che misura il primo pronunciamento impatti sui diritti di singoli lavoratori anche al di là di quanto già addebitato ad altri.

L’unica serenità possibile, quindi, ci deriva dalla rapida soluzione dei contenziosi che vanno ad aprirsi. Solo quando la parola “fine” sarà scritta da tutti i rami della giustizia potremo pacificamente prendere atto degli esiti di questa vicenda, sperando che questi inducano in tutti, sulla base di un’ampia e convincente analisi delle complesse realtà di contesto, una percezione di “giustezza” della legge.

Nell’immediato, sento il dovere di manifestare il mio sincero apprezzamento nei riguardi di tutti i dipendenti di questo Ateneo che hanno concorso al raggiungimento di quei risultati e di quelle eccellenze che ci vengono diffusamente riconosciuti e, in particolare, di quanti continuano a lavorare con competenza e abnegazione benché coinvolti in vicende che ne stanno mortificando la professionalità e le prospettive di carriera; con la dedizione e la discrezione di sempre, che riconosciamo a chi è animato da un alto senso di appartenenza alle Istituzioni e alla nostra istituzione universitaria.

Che si ponga tempestivamente la parola fine alla vicenda delle Pev è dovuto non solo ai più diretti interessati ma anche all’intera collettività, che vuole l’Università degli Studi della Basilicata sempre più orientata a supportare l’auspicato decollo socio-economico dei nostri territori.

*Rettore Università della Basilicata

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE