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Si fa un gran parlare, da anni, di un ritorno al Medioevo. Uno dei primi a parlarne, in un libro apparso nel 1977 , “La società anarchica” , fu un politologo inglese, Hedley Bull. E che cosa sosteneva Bull? Che l’ordine internazionale sul quale si reggeva il mondo era traballante; la vecchia sovranità nazionale un arnese ormai logoro. Il potere reale avrebbe presto assunto forme inedite, transanazionali e opache,  mentre avremmo assistito al deflagrare di una microconflittualità internazionale virulenta e non governabile. Infine, ed è forse l’intuizione più stupefacente, l’unificazione tecnologica del mondo avrebbe finito per accelerare il processo di dissoluzione delle economie e delle politiche nazionali.

Stiamo entrando, dunque, in un nuovo Medio Evo; e vivendo, senza esserne consapevoli, una fase di transizione il cui orizzonte è ancora tutto da definire? Davvero il nostro caotico mondo sta incubando un futuro del quale non abbiamo coscienza? e una rivoluzione morale e culturale è alle porte? Ma se questo fosse vero, che uomo sarà l’uomo di domani? E in che razza di società vivrà?

In verità, e ora stiamo cominciando ad accorgercene, una nuova umanità è già tra noi; e parla una lingua sconosciuta a molti di coloro che hanno più di trenta anni: un’umanità apolide  che a queste domande già prova a dare risposte. In parte essa cerca asilo, non sempre trovandolo, nei movimenti che nascono qua e là in Europa e nel resto del mondo: come nel movimento di Grillo, ad esempio. Ma tra le sue file c’è chi va anche oltre. Chi è stufo di aspettare. E tenta di dare vita, qui e ora, a comunità che prefigurano, o almeno ci provano, nuovi stili di vita, inediti esperimenti di cooperazione sociale.

Non è un caso, forse, che proprio a Matera, città che vanta una tradizione di monachesimo attestata dalle innumerevoli chiese rupestri che ne costellano il territorio, nasca il primo esperimento – prototipo lo chiamano quelli che ne sono i protagonisti – di Unmonastery: un’esperienza che affianca il percorso di Matera 2019 e che ha per obiettivo, come si diceva, la messa a punto di un nuovo embrione di organizzazione  sociale. Proprio come nel Medioevo, il richiamo a valori ideali originari e l’uso di strumenti che anticipano il futuro si mescolano e si confondono, rendendo oscura e contraddittoria l’interpretazione del processo culturale in corso. I giovani di Matera non hanno patria – nel senso che vengono da città e paesi diversi – ma sono accomunati da uguali aspirazioni e strumenti. Il loro credo è la condivisione. Una condivisione che essi praticano attraverso la rete. Il loro modo di stare al mondo è l’apertura: che ha la sua leva nell’open source, la messa a disposizione gratuita della conoscenza.

Il monachesimo del terzo millennio, nella città dei Sassi, ha – tra gli altri – il volto e la barba di Cristiano Siri, genovese non ancora quarantenne, da meno di due mesi in città per dar vita, assieme a volontari provenienti dall’Europa e dal Nord America, a un modello di convivenza radicalmente alternativo a quello tradizionale. Lo incontriamo nella sede a due passi da quella del Comitato Matera 2019, messa a disposizione dal Comune.

Siri, come nasce Unmonastery?

E’ il frutto di un dibattito sviluppatosi all’interno di una comunità internazionale: una comunità on line affratellata dagli stessi interessi che, due volte l’anno, si dà appuntamento in una città europea. Da una di queste sessioni è scaturita la decisione di concentrarsi su tre sfide: il recupero di spazi inutilizzati, la messa a valore della disoccupazione e l’erogazione di servizi sociali.

Sarebbero compiti dello Stato…

Lo Stato non ce la fa più. Noi ci candidiamo a gestire le aree marginalizzate da questo sviluppo. E poi vogliamo occuparci della disoccupazione intenzionale, non soltanto di quella subita: offriamo una prospettiva a chi decide di sottrarsi a forme di lavoro in cui non crede più. Infine, per quanto riguarda i servizi sociali, è ormai chiaro a tutti che la mammella statale non darà più latte.

E qui entrate in scena voi, i nuovi monaci?

Sì. Ci ispiriamo ai monasteri delle origini. In fondo, chi erano i monaci? Erogatori di servizi per la comunità. Facevano strade, insegnavano, diffondevano cultura. Ma erano anche manovali, agricoltori, produttori di birra.

Insomma, una comunità di frati laici…

Con la differenza che noi non abbiamo vincoli religiosi, che qui non vigono gerarchie, che la comunità è aperta a tutti, uomini, donne, vecchi.

E a Matera sarà la Assisi di questo movimento?

Sì. La nostra idea è quella di dar vita a un prototipo che possa essere replicato in tutto il mondo. Del resto è da più di un anno che ci lavoriamo. Prima c’è stato un incontro con i cittadini dal quale sono emerse dodici sfide sociali. Su questa base è stato fatto un bando al quale hanno risposto persone da Europa e America. Quindi, una commissione mista ha selezionato quattordici di noi per portare avanti un progetto che cerchi di dar risposta ai problemi emersi e per generare uno scambio di competenze. Ed eccoci qui. Siamo arrivati ai primi di febbraio e, pian piano, stiamo diventando un punto di riferimento per molti materani e per le associazioni locali. Per ora stiamo scrivendo i libro degli errori con l’intento di produrre un documento utile ad altri unmonastery.

Come è nata la sua, diciamo così, vocazione?

Ero stanco della vita che facevo. Sono cresciuto in una casa ipercattolica, e ho seguito fino a un certo punto il modello trasmessosi dalla mia famiglia. Laurea in Scienze politiche, poi lavoro a Roma per dieci lunghi anni come consulente aziendale. Infine è scattato qualcosa. Ho capito che stavo conducendo un’esistenza inutile. Di più: mi davo da fare per un sistema economico e sociale nel quale non credevo. E non solo non ci credevo io, ma quel sistema stava collassando da sé. Allora ho mollato tutto e sono partito senza un soldo in tasca. Per anni ho girato l’Europa in autostop. Poi un amico mi ha parlato di Unmonastery, mi sono candidato, e ora sono qua.

Come vi sostenete?

Abbiamo un rimborso spese di 400 euro mensili dal Comune.

E sono sufficienti?

Vede, noi abbiamo un’altra concezione del denaro. Oggi viviamo in un mondo ancorato a interessi di breve durata, nel quale i soldi hanno grande importanza. Ma noi vogliamo indirizzarlo verso interessi di lungo termine. In ogni caso, qui tutto è improntato alla trasparenza. Sul nostro sito è possibile monitorare in dettaglio i finanziamenti, le spese, si può sapere dove e cosa compriamo. Abbiamo una pagina dedicata alle donazioni…non in denaro, ma in cose concrete. Per noi l’economia è collaborazione, è circolazione dei beni, non finanza. Ci interessa la condivisione, l’open source.

E adesso che cosa succede?

Sabato prossimo abbiamo la cerimonia di inaugurazione. Apriamo ufficialmente dalle 10,30 fino a sera. La mattinata la dedicheremo a un’iniziativa che per noi ha un’importanza simbolica. Proveremo ai mappare la città su una piattaforma open source, quindi totalmente aperta. Ci dividiamo in gruppetti, ognuno sul suo bus, e con lo smartphone classifichiamo tutti i punti del percorso. Poi, chi vorrà sviluppare applicazioni avrà un datebase aperto e disponibile.

E poi?

Pranzeremo tutti assieme, quindi faremo un primo lavoro di condivisione delle nostre conoscenze tecnologiche. Alle 16 si parte con la presentazione di progetti. Ognuno avrà a disposizione sette minuti. Quindi tutti a cena. E il cerchio di chiusura.

Quale cerchio?

E’ un rito che svolgiamo la mattina quando ci svegliamo. Ci mettiamo in cerchio, e ognuno condivide la sua emozione del momento, rispondendo alla domanda “Come stati stamattina?”. La sera, invece, la domanda è: “Cosa ti è rimasto della giornata?”.

Come vede il futuro di Unmonastery?

Immagino che vivremo per  200 anni. La nostra scommessa è cambiare il modo di vivere e lavorare assieme…

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