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Oltre 10 eventi in diverse città del Brasile. Un tour presso Università e Istituzioni culturali in occasione dell’uscita di 3 volumi, in un paese alla febbrile vigilia del Mondiali di calcio. Ma di questo parleremo oltre. Professore, per cominciare ci parli di queste sue nuove fatiche.

 Si tratta di un cofanetto di 3 libri: due (ripubblicati) e uno nuovo. Quando, un anno fa, l’editore mi propose la riedizione di A subversão do ser e di Raizes errantes confesso di aver provato un sentimento ambivalente di piacere e di perplessità. Non sono molti i libri, pensai tra me e me, che resistono all’impazienza del tempo, alla mutevolezza delle stagioni culturali. Eppoi, quali idee lasciar vivere, quali abbandonare al proprio destino? Nondimeno, nel rileggerne le pagine, mi accorgevo, via via, che i timori lasciavano il passo alla sorpresa per l’attualità dei pensieri che anni prima vi avevo annotato. Come se i fili di una ricerca, resa esplicita dagli sguardi e dalle aperture attraverso cui ho tentato di sondare il mistero della mente umana, si stessero riannodando in maniera del tutto casuale. Alla fine il desiderio di veder rinascere, a distanza di anni, quelle lontane parole, è prevalso. Del resto, come resistere al ‘gusto di testa’ provocato dalla raffinata eleganza del mio editore brasiliano?

Insomma, un valore tutt’altro che testimoniale.

Sì. Come se momenti e segni della mia ricerca si trasfigurassero in nuove immagini. In fondo, si tratta di libri che nascono intorno ad un’unica domanda, relativa ai modi attraverso cui l’uomo è stato concepito lungo il Novecento. Ma se l’interrogazione è unica, le strade intraprese sono molteplici. In certi passaggi appaiono assolutamente evidenti gli indizi dei tentativi e delle deviazioni di cui è fatto un viaggio per sentieri non battuti. Quelle pagine ritraggono le maschere enigmatiche della contemporaneità. Tra scenari postmoderni e remoti, si intravedono volti e figure di un tempo privo di attesa, di desideri spaesati, di labirinti fisici e logici di un territorio urbano dematerializzato, esperienze reali in un orizzonte virtuale.

Lei parla di paesaggi metamorfici delle metropoli contemporanee, di megalopoli che stanno diventando sempre più pullulanti Gobi metropolitani. Ci spieghi.

 Si fermi a pensare un attimo alla condizione delle metropoli contemporanee. Sembrano navi con il suo carico di corpi in un passaggio difficile tra un non più e un non ancora. Un passaggio angoscioso, anche se intellettualmente affascinante. Qui, dove lo spazio è divenuto la forma visibile del tempo e il tempo la forma visibile dello spazio, l’aspetto più inquietante è la cancellazione dei corpi. Senza più la capacità di sentire e di nutrire propri desideri, questi corpi non somigliano più alle folle sciamanti delle città della prima metà del ‘900, ma a matrici biopolitiche nomadiche. Ho usato la metafora del Gobi, perché il deserto non è solo un luogo che chiama fuori da se stessi, ma anche l’orizzonte della nostra contemporaneità. Qui si consumano la nostra vita, i nostri corpi, i nostri desideri, che si spostano sempre più verso l’immateriale e non più verso la ‘cosa’. Il corpo stesso ha smesso di essere il luogo del sentire, dell’intensità sensibile. Sembra più che altro un territorio, uno spazio chiuso dove ogni esperienza è emendata del proprio significato.

Se capisco bene, ci invita a uno sguardo nuovo rispetto a questo mutamento?

Il problema è che di quello sguardo non siamo nemmeno più capaci. Lo spostamento del desiderio verso l’immateriale sigilla il compimento di una cesura. L’esperienza è stata neutralizzata da un formidabile processo di virtualizzazione, di desoggettivazione, di sparizione delle relazioni. Nulla sembra più in grado di esprimere la realtà come è. L’ identità stessa si dissolve in una oscillazione continua di emozioni e reazioni. Le cose non stanno più al loro posto e il linguaggio non sa più raccontarle. In questo tempo di utopie capovolte, il linguaggio non sa farsi carico di questa realtà scucita, lacerata.

Lei analizza il termine ‘noi’ che costituisce una frontiera della psicologia, decisiva per la critica di numerose ideologie che ne discendono. Un tema che è all’incrocio pericoloso tra diversi ambiti della conoscenza.

Fa bene a dire pericoloso, perché la parola ‘noi’, che diamo per lo più scontata, ha in sé problemi e fraintendimenti giganteschi. Non è forse sul ‘noi’ (declinato come rappresentanza, comunità, bene pubblico, persona collettiva e via dicendo) che ruota ogni fenomeno sociale, giuridico, politico e via dicendo? Come hanno mostrato acuti pensatori del realismo politico, la parola noi ha una radice diversa dagli altri pronomi.

In che senso?

Ascolti. Se dico io la consapevolezza di me stesso è evidente. Se dico tu ho dinanzi qualcosa che esiste. Se poi dico voi mi riferisco a qualcosa di oggettivabile: proprio come i termini egli ed essi. Insomma, sono tutte realtà esterne. Ma quando dico noi e stabilisco un nesso tra me e gli altri, e lo trascendo, allora compio un’operazione sofisticata, la cui radice è in realtà presunta. Ecco, qui si apre un universo sconfinato di questioni hanno interrogato la politica e la filosofia sin dalle loro origini. Qui non c’è spazio per parlarne, ma se la psicologia si dedicasse allo smascheramento di questo equivoco troverebbe una miniera d’oro.

Nel terzo volume, Da mesma matéria que os sonhos, lei si cimenta con i temi fondamentali della sua ricerca: i limiti della razionalità, la coscienza e la decisione umana.

Cerco di mostrare come la razionalità, di cui andiamo tanto fieri, non è un dato psicologico immediato, ma un esercizio complesso che si ottiene a determinati costi psicologici. Per quanto paradossale possa sembrare, la razionalità non è una facoltà tipica della nostra specie. Tipica della nostra specie, semmai, è la capacità di individuare determinate contraddizioni, analizzarle, controllarle ed eventualmente respingerle. L’esercizio della razionalità ci obbliga a riconoscere i nostri limiti, a migliorare i nostri giudizi, a dubitare delle nostre immediate percezioni. Queste, infatti, non sono atti mediante i quali assegniamo significati nuovi alla nostra vita. È il nostro corpo, il nostro sguardo ad esplorare e a dare un passato al presente e ad orientarci verso l’avvenire.

Lei arriva in un paese percorso dalla febbre dei Mondiali. Il Brasile è il numero uno nel calcio per aver vinto più campionati del mondo. Cosa troverà?

Non è difficile immaginare il clima, la pressione della ‘torcida’ (il tifo), il paese che si ferma quando entra in campo la Seleção. Certo, non mancheranno le tensioni. Parliamo di un paese dove, nonostante i grandissimi progressi, le contraddizioni sono ancora forti. Non vorrei sembrare superficiale, ma spero che, almeno per un mese, i brasiliani buttino tutto alle spalle e regalino al mondo uno spettacolo con l’allegria di cui sono capaci. Qualche mese fa sono stato al Maracanã per assistere alla partita Flamenco-Vasco de Gama. È un’esperienza difficile da raccontare. Tutto diverso dal calcio europeo, centrato sugli schemi del gioco di squadra. Del resto, non era Pasolini che diceva che il nostro calcio somiglia a un discorso in prosa, mentre il calcio sudamericano, affidato all’estro dei solisti, è pura poesia?

E chi vince quando si scontrano prosa e poesia?

Stando ai numeri, si direbbe la poesia. L’Italia è una via di mezzo. Abbiamo inventato i poemi in prosa del calcio. Comunque sia, il calcio è davvero una grande metafora della vita.

 

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