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Il suo talk di oggi al Festival della Filosofia in Magna Grecia – iniziativa che si svolgerà quest’anno anche in Basilicata – avrà come titolo “Unitas Multiplex. Sulla natura dell’umano”. Un tema di non poco conto. Cosa intende con “unità molteplice”? E cosa ha a che fare questo con la natura umana?

Quello di oggi sarà un viaggio, con parole semplici, nel cuore dell’identità umana. Proverò a far reagire parole e concetti del dibattito culturale, morale e politico contemporaneo, su cui da tempo aleggiano fraintendimenti e tensioni. Interpellerò parole come identità e diversità, unità e pluralità. Soprattutto cercherò di smascherare quella che potremmo definire l’illusione dell’unità dell’uomo. È tempo di ripensare le responsabilità etiche e le questioni di legittimità, che sono ben più importanti e decisive di quelle formali, giuridiche e politiche. Senza pensiero, senza etica, prevale inevitabilmente una tirannia dei valori, una cultura dell’odio che distrugge l’humus che stimola scoperte e innovazioni.

Lei ritorna su temi di cui ha parlato tempo fa in un evento organizzato dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati.

Vero, mesi fa a San Paolo, in Brasile. In quella occasione ebbi modo di sostenere che una società che intenda estendere i diritti e i doveri morali, civili (più pre-politici che politici) allo straniero ha bisogno, più che di leggi positive, di un ordine spirituale, di una civiltà morale, di regole di condotta, di una rigorosa e permanente educazione. Una nazione, una cultura che smarrisca la propria identità e la propria capacità di evoluzione e di scoperta, è incapace di qualsiasi accoglienza. Il prossimo (lo straniero) lo si ama amando se stessi, restando se stessi, con lucida consapevolezza critica e autocritica, saldamente ancorati alla roccia dell’universalità dei diritti. A queste condizioni si potrà amare il prossimo nostro, lo straniero.

Un momento. Cosa ha a che fare il tema dello straniero con quello dell’identità?

È un punto decisivo. Io e altro, identità e diversità – le fragili convenzioni linguistiche che ci aiutano a dar forma alla nostra vita di relazione individuale e sociale – sono in tensione continua, sempre pronte a lacerarsi e a produrre conflitto. Ben oltre ogni mediazione sociale e politica. Affrontare tale questione vuol dire rispondere alla domanda relativa alla natura dell’uomo. Un grande poeta tedesco diceva che “noi siamo un colloquio”. Siamo, cioè, una pluralità di parlanti: una comunità di identità aperte all’altro. Non si costruisce alcuna comunità immunizzandosi dal contagio dell’altro.

D’accordo. Ma ammetterà che una relazione con l’altro (lo straniero) che bussa alla nostra porta, con il suo carico di aspettative e pretese, non è facile da realizzare.

Di sicuro non la realizziamo con le retoriche dell’ospitalità. Lo straniero che bussa alla nostra porta, come lei dice suggestivamente, è un avvenimento traumatico, l’irruzione di una presenza altra. L’ospitalità, che implica sempre reciprocità, porta con sé anche tensioni. Non ci serve, del resto, una vuota tolleranza. Lo straniero è un enigma che ci mette in questione, modifica, trasforma il nostro modo di vedere il mondo. Noi siamo anche l’esito di queste diversità. Difendendoci dall’altro distruggiamo alla lunga noi stessi, perché ci resteranno solo le opinioni, gli idiomi del nostro universo sociale. Ma anche i suoi spettri. Finiremmo irrimediabilmente alla deriva. Non solo sociale, anche psichica.

Perché anche psichica?

Perché non si costruiscono relazioni, comunità – in noi, tra noi, con gli altri – se viviamo le inevitabili tensioni solo come sofferenza.

Sì, ma che comunità è quella dove si è obbligati a stare insieme ad altri?

È il tema sensibilissimo del nostro tempo. Dimentichiamo per un attimo ciò che si muove sullo scacchiere geopolitico mondiale (Scozia, Catalogna, Quebec e così via), che ci porterebbe troppo lontano. Guardiamo, invece, a quella pratica politica puramente astratta di convivenza tollerante tra i diversi gruppi etnici presenti sullo stesso territorio nazionale – definita multiculturalismo – la cui applicazione ha generato conflittualità mai conosciute prima. Si è trattato di un enorme e tragico fraintendimento. Le etnie che si voleva dovessero convivere si sono trasformate in subculture e in culture neo-tribali spesso incapaci di stare assieme. Anzi, che tendono spesso alla violenza. Guardi alle crescenti violenze tra latinos e neri africani, islamisti arabi e asiatici, nativi razzisti e varie etnie; alla formazione di bande criminali etniche; al riemergere di un antisemitismo non solo fascista e totalitario, ma islamista aggressivo e fondamentalista. Non è forse questo il paesaggio delle aree multiculturali – dalle città americane alle banlieues parigine, fino alle periferie londinesi – dove ondate di intolleranza violenta negano l’universalità del dovere del rispetto di tutti per tutti, la civiltà dei diritti e delle libertà? Per non dire poi dei grandi incubatori di terrorismo che sono diventate le grandi metropoli europee. Basta aprire i giornali …

Ma è davvero tutto da buttare nelle diverse istanze multiculturali?

Non saprei. Mi limito ad osservare che l’euforia della diversità etnica ha prodotto una cultura della separatezza. Ha creato ghetti. Ad un mondo di libera convivenza se ne è opposto un altro di culture ed etnie esaltate nella loro specificità e separatezza, che dissolve i valori universali che fondano e garantiscono i diritti e i doveri reciproci delle persone, delle associazioni, della società civile, delle autonomie, delle comunità volontarie, dei nativi e degli stranieri. Che società è quella in cui si può dialogare solo a condizione di identificarsi sul piano etnoculturale? In attesa che si realizzi una società di mutua tolleranza, il fossato che separa i suoi cittadini diviene più profondo che mai, e ci si ritrova infine ancora più divisi.

Come se ne esce?

L’umanità non è, né sarà mai, una torre di Babele cui imporre un’unità arbitraria e totalitaria. Senza la consapevolezza che un dialogo è tanto più autentico, quanto più evidenti sono le differenze; che un dialogo vero non è relativismo indifferente; soprattutto, che dovremo impegnarci a non naufragare nella ricerca di astratte unità, l’altro ci apparirà come ostile. Ci sentiremo minacciati, insicuri, vulnerabili, inquieti. Saremo così spinti a chiedere sicurezza e protezione. Prevarrà un ordine fatto di una sola lingua (la nostra), di una sola razza (la nostra). Questa reductio ad unum di molteplici voci ad una sola, produrrà “malattia”.

 L’idolatria dell’Uno: proprio l’Uno, tema del Festival

Vede, in noi abitano innumerevoli voci di cui non sappiamo nulla, che spesso non riusciamo a capire. Eppure anche queste sono parte della nostra identità. Certa psicoanalisi contemporanea sbaglia ad unificare ciò che è distinto. Le zone d’ombra vanno composte con le altre voci (non risolte o negate). Anche quando questo può voler dire non comprenderle.

A questo punto cosa resta della nostra identità?

L’identità è un viaggio esigente, una ricerca che non ammette scorciatoie eticistiche o buonistiche. Una società vitale deve avere una propria identità, che orienti lo sviluppo e stabilisca valori e regole di convivenza. Solo un’identità del genere, fiduciosa di sé (e in sé), può aprirsi all’altro, accoglierlo, rispettarlo, riuscire nella difficile impresa di trasformare il potenziale nemico in amico. Ma è necessaria un’etica che resista al relativismo e al multiculturalismo che antepongono la cultura al pensiero. La cultura è solo l’effetto del pensiero, non il contrario. Dalle scuole dell’infanzia a quelle di più alto grado bisognerebbe fare in modo che gli studenti imparino a pensare con la propria testa, non a diventare recipienti di idee prodotte da altri. Ma questo ci porta inevitabilmente ad altri discorsi …

l.serino@luedi.it

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