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La terribile esplosione delle Twin Towers l'11 settembre del 2001

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SE C’E’ qualcosa d’italiano negli attacchi contro gli Usa dell’11 settembre 2001, è il rischio di non arrivare alla verità completa sulla strage che ha cambiato gli Stati Uniti e gli equilibri politici internazionali all’inizio del terzo millennio. Il processo che dovrebbe mettere la parola fine almeno all’aspetto giudiziario, a 22 anni dagli eventi, rischia di non arrivare mai più in un’aula di tribunale.

La prima udienza per la selezione della giuria militare era stata fissata per l’11 gennaio 2021, ma lo scoppio della pandemia da Covid aveva fermato tutto. Adesso sono intervenute delle proposte di patteggiamento da parte della giustizia militare, competente per la causa, che potrebbero definitivamente affossare il procedimento. Se i presunti autori degli attacchi dell’11 settembre si dichiareranno colpevoli eviteranno la pena di morte, propone la giustizia militare. E anche il processo, aggiungono i familiari dei 2.977 morti e gli oltre seimila feriti provocati dagli attacchi con gli aerei alle Torri Gemelle di New York, al Pentagono e a bordo del volo United Airlines 93. Molti di loro sono convinti che evitare il processo significhi occultare i tanti aspetti controversi delle indagini, tuttora classificati dalle autorità come segreti di Stato. Senza dimenticare che ormai il numero di persone decedute per malattie legate a quell’evento ha superato quello delle persone uccise nello stesso giorno: oltre 4.600 soccorritori e sopravvissuti iscritti al Programma sanitario del World Trade Center, creato da Barak Obama, sono morti per condizioni di salute legate alle esalazioni respirate intorno all’area di Ground Zero anche nei giorni, mesi e anni successivi agli attacchi.

I medici hanno contato in questi anni almeno 70 forme diverse di cancro, legate alle polveri levatesi dallo schianto delle torri e ancora oggi presenti nell’area. Tuttavia è infinito l’elenco di altre malattie diagnosticate, per non parlare delle conseguenze psicologiche sui sopravvissuti e le loro famiglie. Sotto accusa, infatti, sono anche i reiterati inviti delle autorità ai newyorkesi per tornare a frequentare la zona poco dopo la strage, nonostante i pareri negativi degli esperti.

I cinque uomini in attesa di essere giudicati per gli attacchi dell’11 settembre sono attualmente detenuti nel famigerato carcere di Guantanamo Bay. Si tratta del kuwaitiano Khalid Shaykh Muhammad, ritenuto l’architetto della strage, dello yemenita Walid bin Attash, capo dei campi paramilitari di Al-Qaida in Afghanistan, dell’altro yemenita Ramzi bin al-Shibh, cellula Al Qaida di Amburgo, del pachistano Ammar al-Baluchi, che avrebbe portato nove terroristi negli Usa, e infine del saudita Mustafa al-Hawsawi, che avrebbe procurato al gruppo il denaro. La tesi delle famiglie è che il governo Usa, tra gli altri panni sporchi da non mostrare in pubblico, voglia evitare che si parli delle lunghe detenzioni e delle torture con cui sono state estorte dalla Cia le confessioni dei prigionieri, oltre a quelle subite nel carcere statunitense situato a Cuba. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, grazie a documenti, testimonianze e foto prodotte da alcuni militari statunitensi, hanno accertato che i prigionieri sono stati sottoposti a interrogatori con torture e tecniche come l’annegamento controllato, il “waterboarding”. Se tutto ciò dovesse essere confermato in tribunale, temono i magistrati, le loro confessioni verrebbero di sicuro invalidate, con conseguenze devastanti sul piano politico interno e internazionale.

Tuttavia, la decisione del presidente Biden del 6 settembre scorso di respingere altre richieste dei cinque imputati in cambio della dichiarazione di colpevolezza, come non scontare la pena in isolamento e continuare a mangiare e pregare in comune, farebbe pensare che l’amministrazione Usa abbia deciso di ritrovare una sintonia con l’umore dei familiari delle vittime. La conseguenza diretta degli attacchi contro gli Usa fu il 7 ottobre 2001 la decisione dell’allora presidente George W. Bush d’invadere l’Afghanistan, ritenuto base operativa di Al-Qaida e del suo leader Osama Bin Laden, che si era assunto la paternità degli stessi attacchi. Come sia andata a finire è davanti agli occhi del mondo, con il ritorno al potere dei Talebani dopo il ritiro Usa dell’estate 2022 e un sostanziale nulla di fatto, costato altre 170 mila vite umane di militari e civili afgani e circa 4 mila morti dall’altra parte, tra contractors, militari Usa e della coalizione internazionale, tra cui 53 soldati italiani. A queste vittime vanno aggiunti circa 500 operatori umanitari e oltre 70 tra giornalisti e altri operatori dell’informazione che non sono tornati a casa.

Osama Bin Laden fu poi giustiziato in Pakistan da un commando Usa il 2 maggio 2011. I familiari delle vittime e i sopravvissuti hanno tutto il diritto di non tener conto delle logiche del potere e della opportunità geopolitiche del momento: loro chiedono giustizia e, soprattutto, verità. Per oltre un decennio hanno dovuto combattere a colpi di processi contro Washington e contro diversi giudici federali per il diritto di citare in giudizio l’Arabia Saudita e la famiglia reale di Riad, sospettati di aver fornito denaro e altro sostegno ai 19 terroristi ritenuti autori delle stragi. Nei documenti depositati dai legali delle vittime si parla dei funzionari sauditi che avrebbero aiutato almeno due dirottatori a trovare appartamenti, imparare l’inglese e ottenere denaro un anno e mezzo prima degli attacchi. In precedenza, nel luglio 2016, l’amministrazione Obama aveva reso noto il “File 17”, un documento con la lista di oltre trenta persone, tra cui presunti agenti segreti di Riad, collegati all’ambasciata dell’Arabia Saudita a Washington. Due anni fa invece fu l’amministrazione Biden a declassificare un rapporto di 16 pagine dell’Fbi, l’operazione “Encore”, che collega i dirottatori dell’11 settembre a cittadini sauditi che vivono negli Stati Uniti. Sebbene 15 dei 19 dirottatori fossero cittadini sauditi, il regno ha goduto di uno scudo di immunità dalle azioni legali fino a quando il Congresso non approvò nel 2016 la legge Justice Against Sponsors of Terrorism Act. Legge che, appena approvata, permise a un giudice federale di New York di ordinare all’Iran di pagare alle famiglie e alle compagnie assicurative 14 miliardi di dollari, per aver consentito ad alcuni dirottatori di entrare e uscire dal Paese prima dell’11 settembre senza visti di transito timbrati sui loro passaporti, procedura che avrebbe reso più difficile il loro ingresso negli Usa.

Quando la causa contro l’Arabia Saudita approderà in tribunale, il governo sarà costretto a rivelare maggiori informazioni di quelle fin qui note, a cominciare dai mai chiariti rapporti economici della famiglia Bin Laden con Arabia Saudita e Stati Uniti, tanto che molto si è parlato anche di affari fatti con la famiglia Bush. Come non è mai stato chiarito perché alcune figure di spicco dell’Esercito e dell’intelligence Usa, pur in presenza di soffiate attendibili sull’imminente attacco, non abbiano preso provvedimenti per impedirlo o, se hanno informato chi di dovere, come sia stato possibile sottovalutarle. Inoltre, poiché si tratta di un caso di sicurezza nazionale, i pubblici ministeri in collaborazione con la Cia possono oscurare le prove originali del caso e fornire sostituzioni delle informazioni originali agli avvocati della difesa.

Una procedura che rende ancora meno trasparente le risposte agli interrogativi concreti posti dai familiari, molto diversi dal complottismo sulle presunte microcariche di esplosivo che avrebbero causato la caduta delle Torri, sulla non corrispondenza tra la misura del foro sul Pentagono provocato dall’impatto con uno degli aerei e la dimensione dello stesso, sulle speculazioni finanziarie, avvenute subito prima e subito dopo gli attacchi, intorno alle azioni in borsa delle compagnie degli aerei utilizzati dai dirottatori. Sono risposte che il governo degli Stati Uniti ha il dovere di dare ai suoi cittadini.


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