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LE GIORNATE internazionali nascono con l’obiettivo di costituire un’opportunità di riflessione e discussione, promuovendo consapevolezza su questioni specifiche: eppure, il 25 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, si assiste quasi sempre al disturbante fenomeno per il quale, coloro che durante il resto dell’anno potrebbero non averne dato grande importanza, si schierano a sostegno della causa per mera spettacolarizzazione mediatica. Spesso, questo avviene attraverso manifestazioni simboliche, come la condivisione di scarpette rosse, frasi contro la violenza o motivazionali che, nella maggior parte dei casi, tendono a sfociare in espressioni di lutto o sessismo benevolo.

Quanto accade, probabilmente, dipende anche dal fatto che ancora oggi, sebbene si tratti di un tema ampiamente discusso, non si ha ancora veramente idea di cosa significhi parlare di violenza di genere. Se dinamiche sociali sono sempre difficili da comprendere, è proprio per questo che avere una buona educazione su questi temi appare un’urgenza sociale impellente. Quando si tratta la complessità, per spiegarne la natura, alle volte si ricorre a rappresentazioni grafiche che la semplificano. La “piramide della violenza” è un concetto che viene impiegato per illustrare la gerarchia delle varie forme di violenza, mostrando come azioni apparentemente meno evidenti possano alimentare un ciclo di soprusi crescente. Pensare infatti che solo femminicidi, stupri e schiaffi corrispondano a forme di violenza sulle donne è un concetto errato, che non considera tutti gli altri elementi che invece conducono a queste forme esacerbate di abuso.

La difficoltà principale nell’affrontare le questioni che sono alla base della piramide si basa sul rafforzamento delle dinamiche sociali che le costituiscono. Il primo livello di violenza è infatti la normalizzazione della disparità di genere, in modo più o meno implicito. Sono incluse, ad esempio, le frasi che colpevolizzano i comportamenti femminili (ad esempio, istituendo una correlazione tra l’abbigliamento e la violenza) o tutte quelle generalizzazioni che parlano di una presunta indole maschile, confondendo le dinamiche di potere per tratti naturali. Ma gli uomini che commettono violenza non sono ontologicamente votati a quest’ultima, e sono invece semplicemente stati educati in un contesto in cui quella violenza è radicata. Nessuno nasce molestatore, ma tutti cresciamo nella medesima realtà sociale in cui se una donna si espone è passibile di giudizio morale, mentre gli uomini no. Questo costrutto, che prende il nome di doppio standard, rafforza il peso del secondo livello, quello della sottomissione. Vi rientrano tutte quelle azioni indesiderate che, tuttavia, sono abitualmente giudicate come innocue, come il fischio che una donna può ricevere per strada. Sebbene, fin troppo spesso, siano addirittura giustificate come complimenti, queste manifestazioni sono in realtà molestie sessuali, che espongono le donne ad attenzioni indesiderate e possono perciò contribuire a farle sentire vulnerabili o minacciate.

I dati ci dicono che, nel 2020, il 79% delle donne italiane ha dichiarato di aver subito molestie in strada prima dei 17 anni ed il 69% di essere stata seguita da uno o più uomini almeno una volta. Molte hanno affermato di aver dovuto modificare le proprie abitudini, cambiando percorso e persino modo di vestire, e tutte hanno manifestato di percepire ansia e paura. Allo stesso modo, sono 17.539 le donne che hanno denunciato di essere vittime di stalking nel 2021. Rientra in questa categoria di violenza anche la condivisione di materiale privato in modo non consensuale; in Italia ci sono circa 190 gruppi su Telegram dedicati solo a questo, a cui sono iscritti quasi 9 milioni di utenti. Il livello successivo, invece, è forse fra i meno discussi, probabilmente anche a causa di una forte morale cattolica che, sebbene si tenda a negare, appare invece impattare in modo considerevole quando ci si trova a trattare alcuni argomenti che rientrano nella sfera sessuale. Si tratta della rimozione dell’autonomia a livello sessuale, come ad esempio la coercizione riproduttiva o lo stealthing (ossia la rimozione del preservativo senza consenso).

Questi temi, estremamente delicati, difficilmente sono affrontati con l’attenzione che meriterebbero. In questo livello rientra anche la violenza economica, che può essere connessa alla violenza domestica e a quella psicologica e che si configura come squilibrio di potere legittimato dalle disuguaglianze di reddito. Dal punto di vista di chi subisce la violenza, la prospettiva di trovarsi libera ma assolutamente priva di risorse economiche, può fare sì che la persona scelga di rimanere vittima, restando in una situazione di sopruso. La violenza psicologica sulle donne, fisica e sessuale, di cui si parla fin troppo spesso nei fatti di cronaca, rappresenta dunque solo l’ultimo livello, quello della cosiddetta violenza esplicita. Secono i dati Istat, il 31,5% delle donne ha subito almeno un episodio di violenza fisica o sessuale. L’apice della violenza, poi, è rappresentato dai femminicidi. Dall’inizio del 2023, in Italia, sono state uccise più di 80 donne. Eppure, ancora non sembra chiaro ai più come si dovrebbe parlare di questo tema e, neppure, quanto sarebbe urgente una effettiva educazione a contrasto della violenza di genere. Il fenomeno delle aggressioni di genere è solo un estratto, frutto di un sistema culturale in cui siamo immersi a tutti i livelli, e che non riguarda solo i casi più estremi. Parlare di questo tema solo in occasione del 25 novembre, e non farlo correttamente, sembra non solo una scelta quantomeno irrispettosa ma, ormai, inaccettabile.


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