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Il presidente dell'Ucraina Volodomir Zelensky

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Zelensky è un caso: ai nostri occhi è diventato come il grillo parlante che rappresentava la nostra coscienza. Infatti cominciamo a non sentirci più in grado di garantirgli quanto gli avevamo promesso e quanto si aspetta da noi

IL BURATTINO Pinocchio prendeva a martellate il Grillo parlante ogni volta che lo rimproverava per una cattiva azione. Nel capolavoro di Collodi il Grillo rappresenta la coscienza, quella vocina che ci parla dentro ogni volta che facciamo una cosa sbagliata. Così se intendiamo proseguire in quell’azione dobbiamo mettere a tacere la coscienza oppure trovare il modo di autoassolverci spiegando a noi stessi i motivi per cui dobbiamo non sentirci in colpa nel proseguire nell’azione che stiamo compiendo quando abbiamo avvertito il segnale di allarme.

Fuor di metafora, Volodomir Zelensky sta assumendo le sembianze del Grillo. E’ una mutazione che non riguarda la persona del presidente ucraino che resterà come è stato in negli ultimi due anni, con il medesimo abbigliamento militare e lo stesso determinato cipiglio; siamo noi occidentali a vederlo così, perché cominciamo a non sentirci più in grado a garantire a Zelensky che rappresenta la nostra coscienza quanto gli avevamo promesso e quanto si aspetta da noi. Certo, i governi occidentali sono legittimati a replicare alle eventuali critiche ucraine che quel governo e il suo esercito non sono stati all’altezza della sfida sul terreno militare; Zelensky potrebbe rispondere che non abbiamo fornito in tempo e nella misura necessaria gli armamenti che sarebbero stati necessari, che gli abbiamo impedito di rispondere ai russi bombardando oltre i confini.

Noi, a nostra volta potremmo dire che era stato chiaro fin dall’inizio che la Nato non poteva in alcun modo essere coinvolta. Sono discorsi questi che non si fanno ancora in maniera ufficiale, ma che già si sentono nell’aria, circolano tra le opinioni pubbliche e filtrano dalle analisi delle Cancellerie.

La crisi in Medio-Oriente ha aperto un altro fronte molto complicato da gestire ma nello stesso tempo molto più delicato per lo scacchiere in cui si svolge e per gli interessi che sono in gioco. Anche in questo nuovo ma antico focolaio di conflitti l’Occidente sta usando la medesima linea di condotta di cui si è avvalso in Ucraina, raccomandando ad Israele (che per fortuna non ha bisogno di assistenza militare) di reagire al massacro del 7 ottobre guardandosi bene però dall’allargare il conflitto in un’ area da cui transita l’arteria iugulare dei paesi industrializzati e collocata dall’Onnipotente sull’altra sponda di un mare Mediterraneo molto più vicina dell’Ucraina. Il declino della causa di Kiev si accompagna all’azione diplomatica di un Putin in grande ‘’spolvero’’, accolto al suono degli ottoni proprio in quei Paesi che navigano sul petrolio e che potrebbero essere coinvolti nella crisi israelo-palestinese. Ed emerge sempre più con chiarezza che lo zar – in procinto di essere trionfalmente eletto per un quinto mandato (con possibilità di restare al potere fino al 2036 – è un protagonista dell’altra grande partita che si gioca da un paio di mesi tra il Giordano e il mare. E lo è in una cordata che coinvolge l’Iran, la Repubblica teocratica che fornisce armi sofisticati alla Russia e foraggia tutti i movimenti islamisti/radicali nemici di Israele in quanto alleato del Grande Satana dell’Occidente.

Peraltro – senza che nessuno se lo aspettasse – il conflitto a Gaza ha svelato all’Occidente di dover fare i conti con ‘’quinte colonne’’ filo-palestinesi portatrici non solo di sentimenti antisemiti, ma di ostilità e ripudio nei confronti dei valori del mondo libero. Il che rende ancor più difficile per i governi occidentali impegnarsi in Ucraina come in Israele, perché il tallone di Achille delle democrazie è proprio il dover fare i conti con delle opinioni pubbliche opportuniste e influenzabili dalla propaganda dei ‘’cattivi maestri’’), mentre i regimi dittatoriali e le autocrazie non devono rispondere a nessuno perché chiunque si azzardi a replicare finisce in carcere perché le opinioni diverse sono trattate come crimini. Aleksej Anatol’evi Naval’ny sta scontando trent’anni di carcere duro in Siberia. Sarebbe bello che il melomane salito all’onere delle cronache per aver inveito – in pratica – contro la presenza del presidente del Senato alla Scala, si recasse alla prima dei balletti al Bolshoi e gridasse alla presenza di Putin: ‘’Libertà per Navalny’’.

Ma non divaghiamo. Qualcuno potrebbe obiettare che le posizioni ufficiali non sono cambiate. Ma il voto del Senato Usa che ha bocciato il piano di Joe Biden di aiuti all’Ucraina e a Israele è probabilmente una mossa tattica dei repubblicani per avere delle contropartite, ma è un segnale molto eloquente dell’inizio di un conto alla rovescia che influenzerà le elezioni del novembre 2024. Un anno di campagna elettorale suggerirà a Biden di agire con cautela. Ciò significa che se si deve trovare una soluzione di compromesso nei teatri di conflitto bisogna agire per tempo e assumersene la responsabilità. Zelensky non può essere lasciato solo a negoziare un ‘’cessate il fuoco’’ che sarebbe solo una resa. Si da questa situazione si può uscire solo con una soluzione ‘’coreana’’ tocca alle grandi potenze rendersi garanti della sicurezza dell’Ucraina. Ma tutti dobbiamo essere consapevoli che la sfida aperta a livello planetario è ben più inquietante del confronto/scontro tra le due superpotenze durante la guerra fredda. Allora ai valori delle società democratiche e delle istituzioni liberali si opponeva un modello di società collettivista che imbrogliava ed illudeva miliardi di persone nella speranza e nella promessa di una maggiore giustizia sociale (Lenin voleva portare al governo le cuoche ma lo fece con la polizia politica e i Gulag).

Oggi, il fronte delle nazioni/canaglia non si preoccupa più di mentire: i suoi valori sono la guerra, la forca e la tortura, il razzismo, la l’odio per le donne, la negazione dei diritti, il disprezzo per la vita, il fanatismo religioso, la dittatura e il nepotismo. Qualcuno in Occidente ritiene che con questi (dis)valori si debba convivere fino ad arrendersi in nome di un pacifismo vile. Chi esclude dal proprio futuro un orizzonte di guerra ha già cominciato ad arrendersi.


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