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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio

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Georgia on my mind. Tranquilli: Ray Charles non c’entra. E neppure l’ultimo Stato dove si è votato negli Usa confermando il declino di The Donald. Giorgia con la “i” è la prima presidente del Consiglio italiana donna che ogni mattina si guarda allo specchio e deve decidere che faccia indossare.

Quella della frequentatrice della Garbatella che ha scalato passo dopo passo – e proprio in quanto donna con difficoltà suppletive – tutti i gradini della politica fino ad arrivare in cima al potere e deve mantenere quel suo atteggiamento da popolana verace, con l’accento romanesco e la rabbia di quella poco presa sul serio e oggi diventata numero 1. Oppure se usare la faccia istituzionale e indossare gli abiti Armani non solo alla Scala ma anche e soprattutto nelle stanze di palazzo Chigi, dove i tailleur contano come contano decreti e disegni di legge.

La realtà è che la presidente del Consiglio vorrebbe tenersi entrambe le facce come fosse la riedizione di Giano nel terzo millennio. Solo che è impossibile. La faccia governativa è obbligatoria come appunto i completi di sartoria. Con i quali se ti presenti ai bar della Garbatella ti guardano con un sorriso di sufficienza.

Non solo. Giorgia (sempre con la “i”) on my mind è il pensiero rassicurante che coltiva il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che dopo aver indossato l’armatura garantista è partito all’attacco mettendo sul fuoco una quantità enorme di carne politica – dalla separazione delle carriere alla cancellazione dell’obbligo dell’azione penale, dalla limitazione delle intercettazioni alle carceri da umanizzare – provocando disturbi gastrici di notevole entità alla parte più politicizzata della magistratura. On my mind perché  Nordio sa che Meloni l’ha fortissimamente voluto sulla poltrona di via Arenula e dunque si muove da carrarmato per convinzioni proprie ma sapendo di poter contare sullo scudo protettivo del capo del governo. Che infatti si è schierata dalla sua parte senza incertezze.

Solo che una cosa è dire, l’altra è riuscire a fare. Sulla giustizia, grande ma purtroppo non unica malata del Paese, da trent’anni si combatte un conflitto nucleare tra politica e toghe, dove ogni argomento diventa un campo minato pieno di pasdaran dell’una e dell’altra parte pronti a farsi saltare in aria, e ogni riforma, perfino una blanda come quella portata all’approvazione dalla ministra Cartabia, provoca una guerra dove non si fanno prigionieri.

La politica ha subito una delegittimazione feroce negli anni di Tangentopoli; la magistratura ha perso parecchia della sua credibilità con la vicenda Palamara. Senza che i processi siano diventati più celeri e i diritti dei cittadini inquisiti conquistato maggiori tutele. Ce ne sarebbe a sufficienza per sollecitare un confronto che non si nutra di impossibili ritorsioni e non ceda il passo alle ragioni di un corporativismo inaccettabile.

Ma così non è. Perché sulla guerra giudiziaria si sono plasmate formazioni politiche e issato bandiere identitarie. Perché in troppi sono finiti nel tritacarne della giustizia spettacolo, e sono ferite difficili da rimarginare. Sul giustizialismo spinto il M5S ha costruito la sua travolgente campagna mediatico-politica, e le proposte di Nordio sono benzina sul fuoco dell’onestà-ta-ta-ta.  Sul garantismo peloso, quello valido per gli amici e inesistente per gli avversari, il centrodestra ha lucrato e inveito nella trincea della difesa dello Stato di diritto.

Adesso però, in mondo sempre più liquido e liquefatto, è in atto un sottosopra niente male. Perché è il governo di centrodestra guidato dalla prima donna premier che impugna la bandiera garantista e FdI e Lega – velocemente passati dalla galera a passo di carica con chiave buttata a mare a forme di tutela fino a ieri impensabili – che plaudono a scena aperta, mentre Forza Italia è come un viaggiatore perduto nel deserto che trova una sorgente nella sabbia. Bene, no?  Non esattamente. Visto che proprio qui torna la domanda più frequente degli ultimi anni: e allora il Pd? Già. Il terreno giudiziario è uno di quelli più scivolosi per il Congresso e il confronto tra correnti e anime politiche del partito di Letta. Perché attaccando Nordio ci si avvicina al Cinquestelle e in molti sono tentati di giocare la carta giudiziaria per trovare agganci con Giuseppi, finora sordo alle avances per sottoscrivere un’intesa elettorale e non solo.

Ma c’è anche un’altra parte del Pd, quella più riformista e “migliorista”, incarnata da Marco Bentivogli, Stefano Ceccanti, Piero Ichino, Tommaso Nannicini e via discorrendo che hanno sottoscritto un manifesto laburista e sono critici verso il percorso costituente predisposto dalla segreteria. “Il giustizialismo forcaiolo – ha scritto Bentivogli in un tweet – fa parte della peggiore cultura della destra. La sinistra dovrebbe sostenere. Le proposte di Nordio”. Certo, come no. Quasi una bestemmia. Non a caso l’ex responsabile della giustizia, Walter Verini, ha attaccato il Guardasigilli sostenendo che non solo le proposte ma soprattutto le veementi reazioni alle sue esternazioni, “sono atteggiamenti inquietanti che fanno rinascere lo scontro tra politica e toghe”.

Il fronte della giustizia è il più difficile da trattare nel Pd. E il confronto congressuale può incendiarsi su molte cose, ma su questa bruciarsi. Un falò che può propagarsi al Parlamento e a tutto l’agone politico. Sempre a patto che Nordio sia capace di andare fino in fondo, evitando di affondare sugli scogli dove lo aspettano i nemici. E gli amici.


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