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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Come previsto, nei giorni scorsi, durante la festa della Madonna di Polsi, si è alzata, netta e vigorosa, la voce di monsignor Morosini, vescovo di Locri-Gerace, che ha ribadito, senza esitazioni o ambiguità, la condanna più netta dei comportamenti degli “uomini d’onore” calabresi. “Polsi, luogo di fede sofferta e di speranze inespresse; Polsi luogo di pietà semplice e devota; Polsi, scuola di religiosità semplice e umile, è diventato luogo violato e profanato da conterranei e fratelli di fede, che hanno tradito la fede vera, pretendendo assurdamente di ricevere dalla Vergine Maria la benedizione sui loro patti illegali, sui loro progetti non certamente a favore della vita, sulla spartizione di un potere ingiusto. /./ La Chiesa ha parlato con estrema chiarezza e lo afferma in questo momento in forma solenne: non c’è alcuna cosa che ci lega, cari fratelli, che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le vostre ricchezze, il vostro potere, il vostro onore. Lo ripeto, non c’è nulla che possiamo condividere. I nostri cammini non si congiungono a Polsi se mai si dividono ancora di più, si distanziano maggiormente /./. Non possiamo far convivere in noi devozione religiosa e comportamenti immorali. /./ l’aver visto dinanzi alla Vergine gente che vive nell’illegalità dimostra proprio questo errore: presunzione di avere una fede senza considerare gli impegni che scaturiscono dalla fede. Gente che ha ricevuto i sacramenti /./ che comportano una scelta di vita secondo il Vangelo e che invece sono fuori del Vangelo; gente che ha portato i propri figli a battezzare dichiarando a parole di credere in Dio e di rinunciare al peccato e a Satana, ma che continuano a vivere lontano dal Signore e dalla sua parola”. Parole che ho voluto riportare ampiamente perché sono da condividere, iniziativa da segnalare in tutta la sua positività, da riprendere richiedendo anche prese di posizione da parte delle diverse articolazioni della gerarchia ecclesiastica. Ma, anche, parole inusuali da parte di esponenti della Chiesa cattolica che troppe volte ha acconsentito e acconsente che i mafiosi si percepiscano e si facciano percepire come timorati cattolici, ferventi devoti e, pertanto, modelli di cristiane virtù. Quando, dopo quaranta anni di latitanza, viene arrestato Bernardo Provenzano, nel suo “covo” vengono ritrovati tre santini di carta raffiguranti Maria SS. Addolorata-Santuario di Corleone; un santino di carta raffigurante Maria SS. delle Grazie di Corleone; un santino di carta raffigurante il Sacro Cuore di Gesù; un santino raffigurante il cardinale Pietro Marcellino Corradini; due santini raffiguranti rispettivamente uno Maria SS. del Rosario di Tagliavia e l’altro il Beato Bernardo da Corleone cappuccino; settantatré santini raffiguranti Cristo con la scritta: “Gesù confido in te”. Ancora. una Bibbia e un libro di preghiere con l’effigie della Madonna e la scritta: “Pregate, pregate, pregate”, una Sacra Famiglia dentro una capanna e un rosario nel bagno. C’erano, inoltre, alle pareti, quadri di argomenti religiosi: un’Ultima cena, la Madonna delle Lacrime di Siracusa, una Maria Regina dei cuori e delle famiglie, un calendario con l’effigie di Padre Pio. Lo stesso Provenzano portava al collo diverse crocette, di cui una in legno. Un suo collaboratore, il geometra Pino Lipari, delinea quasi la santità di Provenzano, la cui moglie lo chiama “Santa Brigida”, e gli scrive: “Ti auguro serenità d’animo e ti abbraccio calorosamente. Dio ti protegga sempre. Rileggo quei passi della Bibbia che tu mi hai inviato e mi ha colpito la massima secondo cui l’albero si riconosce dal suo frutto. Vedo che trovi tanto del tuo tempo per dedicarlo alla lettura ma la tua saggezza per non dire quella di tutti noi non si forma con la lettura che certamente aiuta molto ma bisogna che l’uomo nella sua struttura sia propenso alla riflessione, alla calma e altruista nell’aiutare il prossimo. Tu hai tutte queste caratteristiche e quindi affronti la vita così per come si presenta come un dono di Dio. La tua fede è massima e ti aiuta moltissimo”. Immediatamente dopo il geometra consulta Provenzano sui loro comuni affari criminali. Nel covo di Pietro Aglieri, figlioccio di Provenzano, gli investigatori trovano figure di santi e immagini sacre sparse ovunque, una Bibbia, il Vangelo, gli Atti del Concilio Vaticano II e diversi volumi di testi filosofici e teologici. Inoltre, una cappella privata con una statua di San Francesco completa di alcune file di inginocchiatoi. In tale rifugio venivano a celebrare messa preti e frati che lo avevano confessato e comunicato durante tutta la latitanza. In una delle telefonate registrate il camorrista afferma: “Preferisco soffermarmi sui miei pensieri, dove mi trovo più a mio agio a parlare con Dio”. Nel 1999 a Gioia Tauro i carabinieri trovano nel rifugio dove Giuseppe Piromalli trascorreva la sua latitanza santini, statuette e numerose immagini sacre. Tommaso Buscetta si definiva “timorato di Dio”. In una lettera a un prete scritta dopo l’ennesimo assassinio di un parente, così si definisce: “Sono cattolico, credente e malgrado lei non stimi il mio passato con ragione, le dico che la mia vita è sempre stata improntata nel timore di Dio”. Questa e ancora più ampia documentazione sono presenti in un ottimo libro di Isaia Sales “I preti e i mafiosi – Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica”, recentemente edita da Baldini Castoldi Dalai e che ho già avuto modo di ricordare giorni fa su questo giornale. Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, già deputato della Repubblica e sottosegretario all’Economia nel primo governo Prodi (1996-1998), si impegna in una analisi approfondita delle ragioni della sistematica copertura data dalla Chiesa ai comportamenti dei mafiosi. “C’è il Dio ladri, il Dio degli stupratori, il Dio dei politici cattolici corrotti e il Dio dei mafiosi. Alla fine è consentito a ciascuno di avere e di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza, seguendo non una religione della pietà, della carità o della consolazione, ma una religione della comodità”. Eppure, non possiamo non riflettere con Peppino Impastato, ucciso dalla mafia per la sua coraggiosa opposizione a Tommaso Buscetta: “Se la Chiesa avesse praticato la rottura, radicalmente e permanentemente, e avesse messo lo stesso impegno nel rifiuto della violenza, nella denuncia della mafia come incompatibile con l’etica cristiana e con qualsiasi altra etica, che ha messo, per esempio, nella minuziosa classificazione delle eresie e dei comportamenti sessuali, non saremmo al punto in cui siamo, almeno sotto il profilo del consenso alla mafia. Ci si può domandare a cosa sarebbero ridotte la ‘ndrangheta e le altre organizzazioni criminali se la Chiesa le avesse combattute con la stessa determinazione messa in opera, a partire dagli anni Quaranta, contro i comunisti, notoriamente “senza Dio” e pertanto potenziali protagonisti di ogni crimine, di ogni turpitudine. Ben vengano le parole che monsignor Morosini ha pronunciato a Polsi. Ma perché, seguendo il suo alto esempio, non si fissa una giornata antimafia, da celebrare una delle prossime domeniche nella quale tutti i vescovi e i parroci delle regioni meridionali, della Lombardia, che realizza il massimo degli affari con la ‘ndrangheta, delle altre regioni settentrionali che hanno intensi commerci criminali con la mafia, notoriamente “cancro del Sud”, pronuncino la loro condanna senza appello dei comportamenti mafiosi, proclamando ai devoti, complici consapevoli o inconsapevoli, l’impossibilità della coesistenza in buona fede tra pratica cattolica e pratica mafiosa? Possiamo ricordare – noi , “gli onesti”, i buoni – l’osservazione di Giancarlo Caselli: “Se Falcone, Borsellino, don Puglisi sono morti è perché lo Stato, la Chiesa, tutti noi non siamo stati ciò che dovevamo essere”. Se non vogliamo che le recenti parole di Morosini cadano ancora una volta nel vuoto, restando come testimonianza, alta ma inefficace, tale giornata dobbiamo richiederla a gran voce.

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