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Il 29 aprile del 1997 sulla scrivania di un magistrato dell’ufficio per le indagini preliminari c’era una richiesta di misure cautelari anche per Peppino Gianfredi.
Tra le carte dell’operazione soprannominata “Penelope” c’era un’intercettazione in una nota gioielleria di Potenza dove Domenico Petrilli riferiva di aver “notiziato” proprio Gianfredi degli omicidi di Otello Loconsolo e Ofelio Cassotta. Delitti maturati tra il ’90, e il ’91 al tempo in cui la torta da spartire erano le estorsioni sugli appalti per la costruzione del polo industriale attorno al nuovo stabilimento della Fiat.
Nel codice della mala è un gesto di grandissima considerazione: il console del clan che a quei tempi spadroneggiava nel melfitano che va a informare Peppino Gianfredi delle ultime imprese.
Per questo i fratelli Marco Ugo, e Massimo Cassotta andavano ancora cercando vendetta. E per questo il giorno dopo l’omicidio di Parco Aurora proprio loro vennero perquisiti e messi sotto intercettazione.
Poi però arrivò una lettera indirizzata al comandante dei carabinieri di Potenza. Un esposto anonimo in cui si raccontava che Gianfredi solo pochi giorni prima aveva malmenato Gennaro Cappiello alla presenza di due testimoni.
L’episodio era più che verosimile tant’è che lo stesso Gennaro Cappiello avrebbe ammesso di essersi appostato sotto casa di Gianfredi con una pistola, aggiungendo che l’occasione che andava cercando non si sarebbe mai concretizzata.
Poi ci fu l’agguato in cui morirono marito e moglie.
La storia giudiziaria dell’omicidio di Parco Aurora è fatta di molte pagine oscure. Quella sull’esposto che ha indirizzato le indagini sulla pista dello “sgarro” appare tra le righe dei verbali di un maresciallo dei carabinieri che a quei tempi era in servizio nel Nucleo operativo del Comando provinciale dei carabinieri di Potenza.
I Cassotta erano finiti subito nel mirino ma quell’esposto avrebbe portato le indagini da tutt’altra parte. Il maresciallo ha spiegato ai magistrati di Salerno come sono andate le cose.
«Abbiamo pensato – queste sono state le sue parole – a una persona che solitamente, ci fa arrivare le notizie». Una fonte confidenziale, per capirsi, di quelle inserite in qualche modo nel contesto criminale che a volte passano agli investigatori delle notizie per cercare di ottenere qualcosa in cambio, anche soltanto un po’ di fiducia.
In questo caso, sempre secondo il maresciallo, si sarebbe trattato di un soggetto appartenente a “un’area autonoma” dai gruppi consolidati sul territorio: il vecchio clan di ispirazione cutoliana e i nascenti basilischi. Non un passante, comunque sia, spaventato per aver visto qualcosa di troppo pericoloso per metterci la faccia e presentarsi da solo in caserma. Una mente insomma.
Infatti il maresciallo conferma: «Ci sono state altre attività uguali e identiche. Di questi esposti era un po’ un’abitudine che ne arrivassero».
Così le indagini si sono avviate verso la ricerca dei riscontri di un’estorsione ai danni di un imprenditore di Avigliano da parte di Gennaro Cappiello, e dell’intervento di Gianfredi. Una passeggiata, perchè i testimoni non avrebbero esitato a confermare quanto scritto dall’informatore. Intanto si perdeva di vista la pista melfitana, e maturava la collaborazione di Cappiello.
Alla fine del 1998 le prime informazioni confidenziali a un maggiore del Reparto operativo dei carabinieri di Potenza. All’inizio del 1999 i primi colloqui investigativi. Infine l’adesione al programma di protezione: il mandante – secondo Cappiello – sarebbe stato il marito del pm che conduceva le indagini. E sarebbero occorsi otto anni per archiviare quell’accusa più il processo allo stesso Cappiello.
Ora a distanza di tredici anni dopo le indagini ritornano al punto di partenza.
Leo Amato

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