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Il boss e il magistrato. Senza scomodare Falcone e Bagarella, a volte è un dialogo silenzioso fatto di piccole attenzioni come una sigaretta, o una concessione sul regime carcerario.
Da una parte c’è Francesco Basentini, della Direzione distrettuale antimafia di Potenza, e dall’altra Antonio Cossidente, della famiglia dei basilischi.
Tutto si sarebbe svolto verso gennaio. Il luogo, com’è ovvio, è rimasto coperto dal segreto.
In mezzo tra quei due stanno almeno quindici anni di omicidi e traffici vari: dalla droga alle estorsioni, passando per gli agganci con l’amministrazione, e le lavanderie di denaro sporco. Tutta la vita del clan: dalla lotta per l’emancipazione, all’ascesa verso il predominio. E i rapporti con quell’agente dell’intelligence; il dischetto riservato con tutti gli indirizzi e le nuove identità dei collaboratori di giustizia, che era finito in mano alla mala.
Tanti misteri, troppi per non pensare al rischio di un caffè mischiato col cianuro.
Nel verbale è scritto che il testimone «si avvale della facoltà di non rispondere». Eppure sarebbe stato proprio Antonio Cossidente a chiedere di parlare col magistrato. Forse nel frattempo ha cambiato idea, oppure gli è bastato guardare negli occhi il suo interlocutore per ottenere le risposte che cercava.
Dopo quel muto dialogare Cossidente sarebbe stato trasferito nel carcere di Avellino. È lì che avrebbe condiviso la stessa cella con Alessandro D’Amato, il nuovo dichiarante della Dda, prima di partire per la Sardegna.
Ora D’Amato è sotto protezione. Sta raccontando agli investigatori di aver sparato a Domenico Petrilli e i coniugi Gianfredi, di aver sciolto nell’acido Vito Pinto, e tutti i retroscena della faida tra il clan dei vecchi cutoliani del vulture melfese con i loro amici potentini, e gli scissionisti vicini agli uomini della ndragheta, quei ragazzi che per vendetta e volontà di potenza avrebbero messo in piedi la “famiglia basilisca”.
Se verranno fuori i riscontri necessari ce n’è abbastanza per diversi ergastoli. Abbastanza perchè lo stesso Cossidente non veda più la luce fuori dalle sbarre, anche dimenticando tutto il resto: i colletti bianchi, l’aggancio con l’agente dei servizi, i rapporti con il clan di Boscoreale, e gli ndranghetisti.
Persino l’opportunità di strappare i privilegi della collaborazione con la giustizia da un momento all’altro potrebbe svanire. A meno di un rilancio non consentito. Fuori partita.
È proprio quello che in tanti si aspettano mercoledì dalla deposizione in aula di Cossidente, quando gli chiederanno se è vero che il suo clan aveva preso di mira il business della security nei locali, e se è vero che quei ragazzi lavoravano per lui. Un’ammissione apparirebbe come una chiara manifestare del proposito di collaborare. Negare o non rispondere un gesto di sfida. Peggio un ammissione con dei distinguo. Quella potrebbe essere l’ennesimo depistaggio.
Leo Amato

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