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di AGAZIO LOIERO
Spero che le polemiche di questi giorni su di un tema cruciale come la scuola servano almeno ad avviare a soluzione un problema annoso. Temo però che non sarà così. Molti nodi resteranno irrisolti e gli effetti di devastazione si vedranno purtroppo negli anni. Faccio un esempio. La rilassatezza del vincolo gerarchico tra studente e insegnante, sancito dal “mitico” 68, con i suoi voti “politici”, a partire dall’università ha finito per infettare negli anni tutto il mondo della scuola. Il diritto all’istruzione, sancito dalla Costituzione, confuso con la cancellazione del merito, che della scuola è l’asse portante, e un’ardita operazione di democrazia egualitaria, livellata però in basso. Anche gli strafalcioni di una buona parte degli studenti d’oggi, di cui leggiamo sui giornali: “un’altro” scritto con l’apostrofo, “a mangiato” scritto senza “h” davanti alla “a”, hanno un’origine antica: costituiscono una delle conseguenze più gravi di quell’anarchia scolastica che ha sottratto allo studio una peculiarità rilevante: il rigore. Faccio qui una digressione istituzionale. Consapevoli di alcune diffuse carenze di molti studenti calabresi, con Principe prima e ancora di più con Cersosimo poi abbiamo investito negli scorsi cinque anni somme ingenti in progetti di potenziamento della lingua, della logica e, soprattutto, della matematica. Nella scuola d’oggi purtroppo accanto al dramma dell’ignoranza ne esiste un secondo altrettanto dolente, quello dei 246mila docenti “precari” privi di posto di ruolo, che vengono confermati di anno in anno senza certezza di futuro. Molti oltre i 50 anni che, se collocati con i tagli del governo fuori dal circuito scolastico, rischiano di non potere insegnare mai più. Si tratta di persone sottopagate alle quali lo Stato, siccome dice di non trovare le risorse, spesso non garantisce la necessaria formazione. Sono arrivate all’insegnamento, a volte per vocazione, a volte perché costrette ad accettare, dopo un corso abilitativo post laurea, un posto di risulta, non privo di crescenti frustrazioni, cui li costringe l’incertezza lavorativa dell’attuale, indecente mercato del lavoro. L’ignoranza dei discenti e la precarietà dei docenti sono un brutto segno per il futuro del paese. Qualche tempo fa ho letto un saggio di George Steiner, uno dei più grandi intellettuali del mondo, intitolato “I libri che non ho letto”. L’editore è Garzanti. Un capitolo, il quinto, è dedicato al valore che la scuola e la lingua assumono per il destino di un paese. Leggete cosa l’autore scrive della scuola francese: «La scolarità in questo paese è stata caratterizzata dall’importanza attribuita alla lingua. Ciò che bisogna infondere nell’allievo, dalla scuola elementare in poi, è il genio della lingua francese, che viene considerata superiore a tutte le altre per precisione, chiarezza ed eleganza eufonica. Il bambino deve cogliere il primato determinante della lingua nel definire e sostenere il destino de “la nation”. Avete letto bene, “il destino della nazione”. Sto parlando ovviamente di un paese orgoglioso della sua unità. Qualche riga più avanti viene esaltato il valore della memoria, perché «introduce a una comunità di riferimenti condivisi, è una scorciatoia per acquisire un’eredità riconosciuta. Accumula dentro di noi delle risorse di sensibilità che non ci potranno essere più né censurate né rubate». Questo avviene in Francia, ma anche in Italia fino a qualche decennio fa la scuola aveva un ruolo di grande peso nella formazione della personalità di uno studente. Per un giovane che s’apriva alla vita pieno di curiosità e di stimoli la scuola era tutto e tutto nella scuola rinviava a gesti severi, formativi del carattere. Un’anticipata simulazione della vita, con le sue insidie e i suoi triboli. Si prenda ad esempio l’attesa dell’affissione dei famosi “quadri” alla chiusura dell’anno scolastico. Rappresentava una prova emotiva come poche ne ho avvertito poi da adulto. Le elementari ma soprattutto le medie non rappresentavano solo l’euforica uscita dal grembo protettivo della famiglia. Rappresentavano anche un luogo aperto di divertimento e soprattutto di passione ardente (come in genere sono le passioni allo stato nascente) che accomunava insegnante e studente in un abbraccio ideale, fatto di inespresse complicità e persino di sguardi, destinato a durare tutta una vita. Non è un caso che, a decenni di distanza, io ricordi, non di tanto in tanto, ma molto di frequente e con una tenerezza devota e struggente gli insegnanti che ho amato. Due donne in particolare accendevano, in quella stagione fortemente ricettiva, la mia mente, che, presa per mano, tentava di crescere e di indorarsi. Qualche anno più tardi imbattendomi nella filosofia, mi accorsi che il criterio usato dalle mie insegnanti era stato mutuato dal metodo socratico. Dalla maieutica, prima di tutto. La scoperta lì per lì mi procurò un po’ di dispiacere. Era come se una memoria iconica venisse all’improvviso ingiustamente profanata. Può essere che abbia mitizzato troppo la scuola della mia adolescenza e che mi sia comportato non diversamente da Woody Allen allorquando parlando di cinema, suo amore di una vita, ne diede una definizione folgorante: «il cinema? È la vita con le scene più brutte tagliate». Può essere ma io non ci credo.

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