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di GIUSEPPE AVIGNONE
Il futuro della moneta unica è sempre più a rischio, ma nessuno tra addetti ai lavori e politici crede alla reale possibilità di una disgregazione dell’unione valutaria europea. Proprio nel momento in cui la situazione finanziaria europea sembrava essere in secondo piano – dopo la risoluzione affannosa della “questione greca” di qualche mese fa – rispetto ai problemi di crescita degli Stati Uniti, che ha spinto la Federal Reserve ad attuare un secondo e più aggressivo piano di stimolo all’economia, è scoppiata nuovamente la “grana debito” nel Vecchio Continente. Ad essere bersagliata questa volta è stata l’Irlanda – uno dei Paesi del cosiddetto “Piigs”, acronomico che raccoglie i Paesi a rischio default – che fino a qualche anno fa rappresentava una splendida realtà economica, ma che la speculazione è stata capace di mettere prontamente in ginocchio. L’anomalia più evidente è il contenuto livello del debito pubblico irlandese fino a poco tempo fa – appena il 12% del Pil contro il 50% della Germania nel 2007 – che dimostra come la crisi nasca da eccessi finanziari del settore privato e dalle successive speculazioni. Il basso livello dei tassi d’interesse nell’ultimo triennio ha consentito un boom dei prezzi delle attività e del credito di fatto alimentando il debito privato e costringendo col tempo il Governo irlandese ad intervenire in soccorso delle banche. Ciò, in combinazione con un enorme disavanzo causato proprio da austerità del settore privato, ha spinto violentemente verso l’alto il debito pubblico infiammando la crisi, resa ulteriormente più grave dalle pressioni poltiche tedesche che il mercato ha giudicato pericolose e controproducenti. Le parole allarmistiche della Merkel volte a legittimare la ristrutturazione del debito non potevano che avere effetti nefasti sui mercati: i rendimenti dei titoli irlandesi ed anche dei Paesi periferici in difficoltà (Portogallo e Spagna) sono volati facendo scendere i prezzi delle obbligazioni ai minimi e spingendo anche i mercati azionari violentemente verso il basso. Anche la moneta unica ha perso terreno avvicinandosi a quota 1.33 contro il dollaro, proprio qualche settimana dopo le revisioni al rialzo delle stime del cambio (gli analisti prevedevano l’euro/dollaro a 1.50 per fine anno), evidenziando come la situazione attuale abbia colto tutti di sorpresa e come essa sia frutto delle speculazioni che ormai prendono sempre più piede sui mercati mondiali. La “questione irlandese” è il frutto di pressioni e giochi poco trasparenti, nati nel cuore geografico del problema (in Europa) e rafforzatisi nella consapevolezza di una debolezza strutturale e di una fragilità a cui presto si rischia di non riuscire più a far fronte.

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