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di MASSIMO VELTRI

La ‘ndrangheta è strutturale alla società calabrese, dice la Direzione nazionale antimafia. E vengono in mente le decennali esternazioni di chi denuncia che lo stato al sud è in mano alla malavita organizzata. E noi che nel sud ci siamo nati, ci siamo cresciuti, ci siamo tornati, che ‘ndranghetisti non siamo, non lo siamo mai stati, che diciamo, come reagiamo? Rifiutiamo con sdegno, rinculiamo nascondendoci, ci rassegniamo? Ecco, appunto: “non siamo ‘ndranghetisti”, e: “reagiamo”. Conviverci, con le situazioni ‘ndranghetistiche, siamo sicuri non significhi pure esserlo, almeno un poco, per quanto riguardo inquinamento ambientale e in termini di non riuscire a intraprendere un’azione di contrasto alla ‘ndrangheta? Reagire: che cosa vuol dire, come, in che misura?
Ancora oggi c’è chi parla di professionisti dell’antimafia, in una terra in cui le collusioni, i fatti, le evidenze mostrano con frequenza e intensità crescenti cultura e mentalità, prim’ancora che reati, che sono il de profundis della nostra terra.
E se per professionisti si intendono coloro cui piace ascoltarsi, con furbizia, cinismo, doppiogiochismo, bene, è un fatto. Ma se si intendono invece coloro che ne fanno, dell’antimafia, un esercizio, quotidiano, di denuncia e sensibilizzazione, colpendo pure, com’è necessario, sepolcri imbiancati, no, allora no, non ci possiamo stare. Non ho sentito una voce né ho letto un rigo, dopo le parole del colonnello del Ros che dichiara che a Reggio Calabria c’è un grumo di malaffare che governa la città, un grumo fatto di politica, amministratori, imprenditori, professionisti. Ormai abbiamo appreso e fatta nostra la cultura del garantismo, che significa partire dal presupposto di innocenza, che comporta mettere l’individuo al riparo da macchinazioni e pre-sunzioni. E mi paiono cultura e pratica sacrosante.
Ma da uomo che vive, e ha scelto di viverci in questa terra, mi chiedo come sia possibile non dico sconfiggere ma fronteggiare almeno un cancro che a volte si denuncia come emergenza, a volte come dato strutturale, a volte si nega che esista, a volte lo si assimila a episodi di “normale” criminalità. Un tempo c’erano i partiti, le organizzazioni sindacali, che fungevano da orientatori, da organizzatori, da denunciatori. In un corpo sociale reattivo e pronto a mobilitarsi. Oggi che cosa ci resta? Una parte della stampa, vigile e pronta, come Il Quotidiano, che organizzò tempo fa a Reggio quella oceanica marcia. Che in occasione dell’otto marzo prossimo rilancia e propone un riconoscimento a tre coraggiose donne e invita alla partecipazione, alla mobilitazione (la donna è davvero il motore della società… ) al quale non si può non aderire, e nel frattempo facendo sì che non succeda che passata la ‘festa’ scordato lo santo.
Bisogna cercare pure altro, partire dalle coscienze, con operazione lunga e difficile da iniziare al più presto, così come per molti versi si sta facendo. Antimafia, antindrangheta, significano una sola cosa: pratica quotidiana, in qualsiasi frangente della nostra vita, dell’onestà, della trasparenza, dell’adoperarsi per il bene comune. E a ciò si perviene con l’intransigenza, la denuncia, il rifiuto verso qualsiasi episodio di prevaricazione, di ingiustizia, di “inciviltà”. Allontanando senza tentennamenti mediazioni, compromessi, quieto vivere. Per molto, troppo tempo, la politica ha suggerito di far buon viso a cattivo gioco. Come ci si perviene? Non certo con la retorica di un sud maltrattato dal nord; né con i concioni ipocriti e retorici, ma partendo dalla sfera, dalla dimensione della politica, che sono tutte da costruire. Individui sì, ma membri di una comunità: con diritti ma parallelamente con doveri. Con senso dello Stato. Fuoriuscendo dalla rassegnazione, dall’indolenza, dall’arte di arrangiarsi, dal cinismo che tutto sopporta ché son “tutti uguali”. Ma sfera e dimensione politica pure in riferimento alla politica politica. Senza facili e sbagliate semplificazioni: è dalla politica che promanano modi di vivere e di pensare e di agire. Modi che non discendono dalle parole né dalle promesse, ma dal comportarsi, dal farle, certe cose, dal non farle. Dall’esempio. E se così stanno le cose quali conseguenze si possono trarre, sotto il cielo di Calabria? Certamente non particolarmente incoraggianti, per così dire. Con un elemento di speranza, di indicazione. La politica è cambiata, un “laissez faire”, un andazzo sembrano alle nostre spalle. Uno stesso modello di vivere insieme, il lavoro, il rapporto con lo Stato, i consumi, sono alla ricerca di nuovi orizzonti, attraverso paradigmi da esplorare. Si apre, cioè, o meglio: può aprirsi, una fase entro la quale i calabresi e i meridionali possono cominciare a interrogarsi, e pure a darsi qualche risposta, circa l’essere additati come brutti sporchi e cattivi, a non guardare solo il dito che indica la luna, a uscire dalla subalternità.
A volte certi schiaffi sono terapeutici. Per far sì che quello di Grasso dell’Antimafia non lasci solo ditate immediatamente delebili sarà bene non autoassolverci con un semplicistico quanto colpevole ‘Ma io non sono ‘ndranghetista, sono un calabrese onesto’; sarà bene allarmarsi, indignarsi, mobilitarsi contro quanto dice il colonnello del Ros su Reggio; individuare una cultura e un ceto politico che esprimano, alla lettera, il meglio che c’è al nostro interno. Perché c’è un meglio, eccome, e perché la politica, più di ogni altra cosa, deve esprimere il meglio.

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