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di ANTONELLO GRASSI
Il visionario e il politico. Gli incubi e le responsabilità. L’uno di fronte all’altro, nella redazione materana del Quotidiano della Basilicata, ci sono Andrea Di Consoli, lo scrittore che, con un suo appassionato intervento,  ha chiamato l’intera regione a interrogarsi sul presente e sul futuro di Matera e della Lucania; e Vincenzo Viti, uno degli uomini-simbolo, nel bene e nel male, della politica territoriale. 
“Ritorno alla povertà, desiderio di spiritualità, di senso, di fraternità, di solitudine”: i temi posti sul tappeto da Di Consoli sembrano provocatori, ma sono terribilmente veri. Il frutto di una sensibilità forse esasperata.  Eppure trovano nel corso del colloquio con Viti un interlocutore attento ed emotivamente partecipe. Tant’è che l’ex amministratore regionale finirà per convenire sulla necessità di una profonda trasformazione in senso religioso della politica. E per riconoscere nello scrittore di Rotonda il Pasolini della Lucania. Ma con una differenza, osserva Viti: “Mentre il poeta friulano denunciava la scomparsa del mondo contadino sotto i colpi di una modernizzazione che stava imponendo anche in Italia i miti del consumo e del benessere, Di Consoli si muove da tutt’altra prospettiva. Il benessere, ormai, non l’abbiamo davanti, ma alle spalle. Di qui la necessità, secondo lo scrittore lucano, di un recupero del senso perduto, di quella religiosità che costituiva la sostanza di un mondo ormai scomparso”. Oggi pubblichiamo la prima parte della conversazione svoltasi ieri mattina (la seconda e ultima la troverete sul giornale di domani).  
 
Vincenzo Viti
 Caro Andrea, ti devo dare atto del fatto di avere aperto una pagina intensa, totalmente inedita nel dibattito politico lucano. La tua è una riflessione sulla Basilicata profonda, sulla sua identità. E l’identità è una risorsa, un capitale sociale che può  ridare orizzonte a una regione che non può vivere nella sua  nella sua appartata originale preziosità. Prevale un’idea falsa e pericolosa della località. Manco fossimo i titolari di virtù primigenie,  di una purezza assolute. No. Noi siamo una regione opaca.  Abbiamo bisogno di reimmergerci nella profondità della nostra  storia, trovare alcuni valori di riferimento validi per ieri, oggi e domani. Vedi? In quell’articolo sui Sassi in cui riprendevo le cose da te dette, ho evocato la nostalgia. Cos’ è la nostalgia? E che cosa c’entra con la politica? C’entra. Carlo Recalcati, uno studioso post-freudiano che io amo molto, ha scritto un bellissimo libro sulla psico-patologia della politica. E che cosa dice ? Dice che oggi la politica ha una sola possibilità di salvarsi: recuperando il senso di una missione forte, alta. E’ un invito alla profondità. Contro la levità, la leggerezza, la gratuità, la banalità della politica di oggi: una politica  tutta immersa nel presente, in una società liquida, frammentata. E che presenta un rischio. Quello di innescare la nostalgia del richiamo autoritario. Dove tutto è frammentato, tutto è disperso, il richiamo all’autorità, all’Uno, che è il principio ordinatore, è inevitabile.
Allora qual è lo sforzo che in questa regione dobbiamo fare? Eccolo: collegare profondità, che è tradizione, e futuro. Chi cerca di cancellare la tradizione fa un’operazione suicida. Come se il passato non esistesse. 
E in Basilicata come stiamo messi? Beh, se 40 di noi sono oggi dentro una infernale  macchina  giudiziaria, evidentemente qualche errore è stato compiuto. Errori di leggerezza, appunto, perché qui non sono state compiute   malversazioni. C’è stato un uso sbagliato delle risorse, si poteva e doveva farlo meglio, in maniera più trasparente. Ma  non è che su questo si gioca lo status della classe dirigente. Lo status della classe dirigente si gioca essenzialmente sul rapporto tra mezzi e fini. Sulla trasparenza e sulla coerenza. Qui si gioca la politica. Non su rimborsopoli  (sulla quale è giusto che la magistratura indaghi). La politica si deve far carico della grande sofferenza della gente. . Il rinnovamento è questo, non è  cambiare le facce. Perché ho verso Rrenzi una obiettiva diffidenza?  Una delle cose che mi è piaciuta di Veltroni è quando ha detto a Renzi: coltivi di più la profondità.    La verità è che il Pd è un partito incompiuto, sospeso. Come Matera. Non non c’è stata contaminazione, ma non c’è stato neanche il salto verso un’idea nuova del Paese. Qual è l’idea nuova del Paese che abbiamo noi in questo momento? 
 
Andrea Di Consoli
Sono contento di fare questa conversazion con Viti perché ho colto nei suoi ultimi interventi quella che Testori chiamava sperdutezza, un sentimento profondissimo, umanissimo. Viti è la storia politica di questa regione, ma è soprattutto un esponente di una precisa storia politica, una politica che ha ancora le maiuscole in piedi, cioè  i partiti sono i partiti, la rappresentanza è la rappresentanza. L’obiettivo è la modernizzazione, lo sviluppo di un territorio. Oggi mi piace che vacilli il suo realismo, la sua real politik. Sento in lui questo sentimento della spedutezza. Perché dico questo? Perché la crisi della politica è estetica e antropologica insieme. Sapete perché la classe politica è disprezzata? Perché viene sentita arrogante, vile, affaristica, anche quando non è vero. C’è un problema di rappresentanza, di verità. I politici non manifestano la fragilità che la gente ha, tendono a nasconderla perché la politica è un campo in cui la sperdutezza non è ammessa. Quest’assenza, questa rimozione della sperdutezza sta portando ad allontanare definitivamente la politica dalle persone. Viti  ha posto alcune questioni per me fondamentali. Voglio andare alla radice del problema. Vedo un tempo davanti a me particolarissimo. E’ vero: la tradizione è fondamentale, io la sento anche fisicamente addosso. Dobbiamo immaginare scenari, prefigurarli, sognarli. Vedo davanti a me qualcosa che potrei sintetizzare come crisi della democrazia e crisi della società aperta. Mi rendo conto in questo modo di mettermi in una posizione minoritaria e attaccabile. Ma nel futuro italiano e  lucano io vedo un demone, uno spettro, lo spettro della crisi della democrazia, e lo spettro di un desiderio inconscio, sotterraneo, ctonio, di un ritorno a una società chiusa e non a una società aperta. Un bene? Un male? Lo sapremo nei prossimi anni. Però il tema è questo. Io dico che la politica lucana agisce su uno specifico antropologico e sociale preciso. Forse ha ragione Viti. La lucanità non esiste, è un’astrazione o una forzatura. E però, stranamente, io percepisco che esiste qualcosa che noi possiamo ricondurre a un ethos specifico.
 
Vincenzo Viti
La lucanità rappresenta un valore, ma anche e un rischio. La puoi viverla come valore se  serve a salvaguardare l’identità dui una regione, ma diventaè un limite se la esclude da una fluidità di relazioni, di maturità di pensieri, di conoscenze di modernità dalla quale la Basilicata non può appartarsi. Io, come Di Consoli, penso che la Basilicata sta vivendo una crisi di solitudine, di separatezza, e la sta vivendo come un vulnus profondo che deve superare. L’occupazione, lo sviluppo, l’uso delle risorse energetiche: sono temi cruciali della strategia non solo lucana, un tema da giocare a livello globale.  Ora, una classe dirigente nuova, quale si pretende, deve investire sul globale, deve  evitare di rinserrarsi in una specie di orto concluso e farsi dominare dal particolarismo locale.
 
Andrea Di Consoli
Viti ragiona da politico. Io sono un visionario che mette in campo anche  incubi. Vincenzo ha un dovere politico e non può non confrontarsi con quella che Shakespeare definiva l’importanza della maturità. Il mio punto di vista è diverso. Io dico che la verità è tutto.  E quando dico verità intendo qualcosa di estremamente inafferrabile. Comincio ad avere delle serie difficoltà  come intellettuale a decifrare  congegni sociali troppo  ampi: nel senso che noi possiamo anche immaginare la vicenda lucana inserita all’interno di una vicenda nazionale, europea e globale. Però ecco il demone di cui parlavamo prima.   Possiamo anche girare il mondo, e illuderci di essere cittadini del mondo, ma siamo profondamente ancorati a una koiné e a una lingua che è estremamente oscura. La  koiné per me è fondamentale. Perché i linguaggi sono universali ma le lingue non sono universali.  Così come non è universale il carattere di una persona. Per questo dico che il futuro – che vedrà crisi della democrazia e crisi della società aperta – sarà una ridefinizione profonda delle epoche buie nelle quali i popoli sentono di doversi ricompattare. 
Ora qual è la critica astorica che io rivolgo ai politici? E’ quella di aver fondato il patto sociale degli italiani sul benessere.  Il problema è che nel momento in cui abbiamo fondato un patto  sociale  tra italiani e tra lucani  sul solo benessere abbiamo giocato in maniera pericolosa perché non ci siamo domandati:  ma cosa accadrà il giorno che quel benessere non ci sarà più? Non ci siamo posti  la domanda fondamentale: cosa ci terrà uniti quando non avremo più  la possibilità di avere un lavoro facile, non ci sarà più la possibilità di garantire  un minimo di benessere a tutti?  Per questo io dico: attenzione che stanno riemergendo pulsioni antiche.  Perché nel momento in cui il patto sociale non sarà più fondato sul benessere, inevitabilmente sarà fondato su altro, su sentimenti oscuri che io come scrittore vedo anche in modo positivo. 
Ecco la differenza tra uno scrittore e un politico. Un politico democratico guarda con preoccupazione  questo.  Un intellettuale invece  sente il richiamo del torbido, dello ctonio, di qualciosa di sotterraneo. Non si fanno mai i conti col fatto che la più grande rivoluzione  che italiani e lucani hanno attuato negli ultimi 45 anni è quella religiosa.  Non possiamo ignorare questo quando parliamo di politica: nel senso che il benessere era sostanziato da una morale che diventava etica: etica del lavoro, del rispetto, della convienza civile. E’ normale  che noi siamo passati dall’ essere da uno dei paesi più religiosi al mondo  a uno dei più scristianizzati del mondo. E quando parlo di Cristo e Cristianesimo, e getto la Croce nell’agone politico, non parlo del cristianesimo  di chi ha fede, parlo di quello che è espressione non solo di una lingua, di una koiné, ma  espressione massima di quella sperdutezza che il popolo vuole sia rappresentata.    Pregare non è solo pregare un dio che c’è. Significa mettersi  in una condizione di disponibilità. Questa fragilità umana è nella nostra storia, è nel nostro carattere, lucano o no, ma nel mio popolo lo sento. Perché sono estremamente violento contro quelli che dicono: bisogna superare  Levi? Perché per loro  dobbiamo continuare a fondare il patto sociale sul benessere e sullo sviluppo, sulla modernità , sulla tecnica della modernità. Invece il patto sociale era proprio in quello stare in ginocchio, in quell’essere sperduti. Quando Viti oggi parla delle sue vicissitudini giudiziarie ne parlava con sperdutezza, come uomo tra uomini, e non  come mandarino in una provincia  sperduta dove ci sono dei sudditi che sono subalterni a questa classe dirigente. Ecco perché il dato giudiziario oggi dominante è così prevalente è perché non c’è più la fraternità.
 
   Vincenzo Viti
Ci  sono stati momenti in Basilicata in cui la politica ha supplito alla religione. Anzi, è stata religione, ha mediato tra aspirazione ideale e una condizione materiale. E questo sensibilità per la religione mi fa pensare che Di Consoli sta facendo un’operazione pasoliniana:  è nella stessa condizione di spirito dello scrittore friulano, usa  gli stessi strumenti concettuali, analitici, filologici con cui Pasolini aggredì la crisi e avversava l’industrializzazione e il  benessere. Ma Andrea, rispetto al poeta delle Ceneri di Gramsci,  si pone il problema inverso: di capire come si può uscire da un’età in cui il benessere è stato il fatto dominante  del costume e della politica – tagliando la radice a un sentimento religioso che ha perso la base escatologica ed è diventata puro messaggio sociale, pura dimensione secolare -. Tuttavia Di Consoli non crede alla religione come fatto metafisico, ma estetico. Per lui la religione ha una sua estetica. Sta vivendo questo pasolinismo a parti rovesciate. Lui dice: siamo arrivati a un punto nel quale il rovesciamento della prospettiva ci deve portare a capire come si può recuperare quella profondità che può dare alla politica la  capacità demiurgica che ha avuto in certi momenti. Una demiurgia che ora  manca perché la  politica lavora sul pelo dell’emergenza, della banalità.  O la politica recupera profondità e altezza oppure non serve più.
 
   Andrea Di Consoli
 Sono   accusato di fare antipolitica.  Ma io ho sempre cercato di dare alla politica spunti concreti. Quando io ho messo in discussione l’impianto illuministico della politica volevo richiamare l’attenzione sul fatto che quando non riesci più a sostenere un patto sociale sul benessere,  quella sacralità democratico-illuministica va in crisi.  E gli strumenti sui quali si basa diventano carcasse vuote che non significano più niente. Ttra qualche mese noi affronteremo in Basilicata la campagna per le elezioni regionali, io immagino l’angoscia di centinaia di candidati che dovranno andare tra la gente con un vecchio paradigma e dire  “Useremo meglio le risorse , convertiremo i poli industriali, sburocratizzeremo, creeremo delle condizioni per fare sviluppo. E’ un linguaggio non è una lingua. La gente guarda con diffidenza a queste parole e le bolla come promesse. Il patto oramai si è sciolto. Mi rendo conto che sto portando nel dibattito politico un fattore ics che è molto ostico, pericoloso. Oscurantista, in questo momento. Per parlare con le persone non puoi non mettere sul tavolo i grandi temi. Per questo io parlo di morte. Mi rendo conto che è un paradosso. Però oggi ci troviamo in una situazione sociale in cui la gente ha la chemioterapia all’avanguiardia  per curarsi un tumore ma la gente non riesce a dare più un senso alla malattia alla morte, al loro stare al mondo. 
Io non  sono un neocomuitario. Dico però che bisogna intercettare nuovamente le domande e i bisogni delle persone. E arrivo al paradosso dei paradossi. Che in questo momento la principale domanda in Basilicata non è di lavoro e di reddito. 
 Ma di significato.della difficoltà di questo momento contraddittorio, che sente il peso di un’eredità che è collosa, vischiosa, perché non puoi non emozionarti fino in fondo nel vedere la desolazione dei nostri paesi, la tristezza del nostro paesaggio, il dolore della nostra storia, e anche il dolore di oggi. Per questo abbiamo bisogno di una poesia disperata che entri prepotentemente nella politica. Perché se la politica continua a essere il vecchio paradigma sacerdotale per cui arrivo io e ti dò il posto fisso e ho risolto il tuo problema, la politica perderà e i cittadini si allontaneranno sempre di più. Il paradigma deve cambiare. C’è bisogno che il politico diventi un sacerdote diverso, nuovo, un sacerdote che racconti in profondità l’animo dei lucani. Nel quale io ancora credo
vv. Ma io voglio porre un problema. Hai fatto un discorso che è di grandissima suggestione, lui ha questo onesto scetticismo nei confronti della politica. E io capisco il perché…perché tu fai una riflessione che non solo è vera, ma  tocca la politica nella sua istanza fondamentale, eversiva. Quando tu parli di istanza poetica della politica, una politica che sia capace di cambiare i contorni del reale e di promuovere fatti nuovi, eventi straordinari, dici una cosa nella quale io mi riconosco …ma due problemi io ti pongo. Abbiamo mai pensato a delle agenzie formative che possano in qualche modo ricostruire  i legamenti sociali i fondamenti di tipo religioso, religioso in senso laico. Dove può svilupparsi, dove può nascere questa riflessione ampia densa profonda, alta che può innervare la politica e indirizzarla a quella sfida. Secondo. Siamo in una situazione di totale frammentazione, con un pulviscolo di domande, di ansietà, proposte. Come fai a riordinare questa materia, questa ricchezza in movimento se non all’insegna di un ‘idea che non sia quella del posto di lavoro o della promessa elettorale, ma che sia la ripresa di un percorso o di una linea che ridia fiducia alla gente, al dato metastorico della politica. Come si fa?  Ecco, il problema che mi pongo io come osservatore delle cose e come politico ancora in permanente impegno, (non sarò un politico elettivo d’ora in poi perché arriva un termine a tutto, alle esperienze umane) ma devo stare sul campo e dire la mia.  Mi pongo il problema di ciom esi può procedere, inventare una procedura di formazione di ricostruzione antopologica di questa comunità Perch il dato è questo: lui è il pasolini locale, del quale ha rovesciato il paradigma, Ha ripreso dalla coda il processo. Di fronte al deperimento delle risorse al venir meno dello schema dello sviluppo, alla scomparsa del benessere…com gestiamo questo passaggio di povertà struggente e operosa e inginocchiata, come l’aiutiamo a risollevarsi…e  con quale lingua l’aiutiamo a intepretare i codici attraverso i quali si possa riconoscere in una prospettiva di futuro? Questo è il dato fondamentale.  
DCI. Una delle cose che mi preoccupa molto è che non si capisce Non c’è più il centro. La rete è senza centro. Come si ricostruisce il centro. Un dato psicologico spirituale. Comwe ci si riconnette rispetto a un centro. Una speranza civile nuova che bisognerà alimentare, ch  in ìnome di una prsopsettiva che si faccia amare dalla gente. La politica deve tornare a frarsi amare. Se in questa regione riuscissimo a mettere insieme un gruppo di persone, di scrivere raccontare elaborare un documento sulla sofferenza di questa regione, individuando le possibile strategie di salita. Il problema vero è come rapporti la popolazione con un equilibrio nuovo,. Perché la basilicata non vive in una dimensione di benessere,

Il visionario e il politico. Gli incubi e le responsabilità. L’uno di fronte all’altro, nella redazione materana del Quotidiano della Basilicata, ci sono Andrea Di Consoli, lo scrittore che, con un suo appassionato intervento,  ha chiamato l’intera regione a interrogarsi sul presente e sul futuro di Matera e della Lucania; e Vincenzo Viti, uno degli uomini-simbolo, nel bene e nel male, della politica territoriale. “Ritorno alla povertà, desiderio di spiritualità, di senso, di fraternità, di solitudine”: i temi posti sul tappeto da Di Consoli sembrano provocatori, ma sono terribilmente veri. Il frutto di una sensibilità forse esasperata.  Eppure trovano nel corso del colloquio con Viti un interlocutore attento ed emotivamente partecipe. Tant’è che l’ex amministratore regionale finirà per convenire sulla necessità di una profonda trasformazione in senso religioso della politica. E per riconoscere nello scrittore di Rotonda il Pasolini della Lucania. Ma con una differenza, osserva Viti: “Mentre il poeta friulano denunciava la scomparsa del mondo contadino sotto i colpi di una modernizzazione che stava imponendo anche in Italia i miti del consumo e del benessere, Di Consoli si muove da tutt’altra prospettiva. Il benessere, ormai, non l’abbiamo davanti, ma alle spalle. Di qui la necessità, secondo lo scrittore lucano, di un recupero del senso perduto, di quella religiosità che costituiva la sostanza di un mondo ormai scomparso”. Oggi pubblichiamo la prima parte della conversazione svoltasi ieri mattina (la seconda e ultima la troverete sul giornale di domani).   

 

Vincenzo Viti Caro Andrea, ti devo dare atto del fatto di avere aperto una pagina intensa, totalmente inedita nel dibattito politico lucano. La tua è una riflessione sulla Basilicata profonda, sulla sua identità. E l’identità è una risorsa, un capitale sociale che può  ridare orizzonte a una regione che non può vivere nella sua  nella sua appartata originale preziosità. Prevale un’idea falsa e pericolosa della località. Manco fossimo i titolari di virtù primigenie,  di una purezza assolute. No. Noi siamo una regione opaca.  Abbiamo bisogno di reimmergerci nella profondità della nostra  storia, trovare alcuni valori di riferimento validi per ieri, oggi e domani. Vedi? In quell’articolo sui Sassi in cui riprendevo le cose da te dette, ho evocato la nostalgia. Cos’ è la nostalgia? E che cosa c’entra con la politica? C’entra. Carlo Recalcati, uno studioso post-freudiano che io amo molto, ha scritto un bellissimo libro sulla psico-patologia della politica. E che cosa dice ? Dice che oggi la politica ha una sola possibilità di salvarsi: recuperando il senso di una missione forte, alta. E’ un invito alla profondità. Contro la levità, la leggerezza, la gratuità, la banalità della politica di oggi: una politica  tutta immersa nel presente, in una società liquida, frammentata. E che presenta un rischio. Quello di innescare la nostalgia del richiamo autoritario. Dove tutto è frammentato, tutto è disperso, il richiamo all’autorità, all’Uno, che è il principio ordinatore, è inevitabile.Allora qual è lo sforzo che in questa regione dobbiamo fare? Eccolo: collegare profondità, che è tradizione, e futuro. Chi cerca di cancellare la tradizione fa un’operazione suicida. Come se il passato non esistesse. E in Basilicata come stiamo messi? Beh, se 40 di noi sono oggi dentro una infernale  macchina  giudiziaria, evidentemente qualche errore è stato compiuto. Errori di leggerezza, appunto, perché qui non sono state compiute   malversazioni. C’è stato un uso sbagliato delle risorse, si poteva e doveva farlo meglio, in maniera più trasparente. Ma  non è che su questo si gioca lo status della classe dirigente. Lo status della classe dirigente si gioca essenzialmente sul rapporto tra mezzi e fini. Sulla trasparenza e sulla coerenza. Qui si gioca la politica. Non su rimborsopoli  (sulla quale è giusto che la magistratura indaghi). La politica si deve far carico della grande sofferenza della gente. . Il rinnovamento è questo, non è  cambiare le facce. Perché ho verso Rrenzi una obiettiva diffidenza?  Una delle cose che mi è piaciuta di Veltroni è quando ha detto a Renzi: coltivi di più la profondità.    La verità è che il Pd è un partito incompiuto, sospeso. Come Matera. Non non c’è stata contaminazione, ma non c’è stato neanche il salto verso un’idea nuova del Paese. Qual è l’idea nuova del Paese che abbiamo noi in questo momento?  

Andrea Di Consoli Sono contento di fare questa conversazion con Viti perché ho colto nei suoi ultimi interventi quella che Testori chiamava sperdutezza, un sentimento profondissimo, umanissimo. Viti è la storia politica di questa regione, ma è soprattutto un esponente di una precisa storia politica, una politica che ha ancora le maiuscole in piedi, cioè  i partiti sono i partiti, la rappresentanza è la rappresentanza. L’obiettivo è la modernizzazione, lo sviluppo di un territorio. Oggi mi piace che vacilli il suo realismo, la sua real politik. Sento in lui questo sentimento della spedutezza. Perché dico questo? Perché la crisi della politica è estetica e antropologica insieme. Sapete perché la classe politica è disprezzata? Perché viene sentita arrogante, vile, affaristica, anche quando non è vero. C’è un problema di rappresentanza, di verità. I politici non manifestano la fragilità che la gente ha, tendono a nasconderla perché la politica è un campo in cui la sperdutezza non è ammessa. Quest’assenza, questa rimozione della sperdutezza sta portando ad allontanare definitivamente la politica dalle persone. Viti  ha posto alcune questioni per me fondamentali. Voglio andare alla radice del problema. Vedo un tempo davanti a me particolarissimo. E’ vero: la tradizione è fondamentale, io la sento anche fisicamente addosso. Dobbiamo immaginare scenari, prefigurarli, sognarli. Vedo davanti a me qualcosa che potrei sintetizzare come crisi della democrazia e crisi della società aperta. Mi rendo conto in questo modo di mettermi in una posizione minoritaria e attaccabile. Ma nel futuro italiano e  lucano io vedo un demone, uno spettro, lo spettro della crisi della democrazia, e lo spettro di un desiderio inconscio, sotterraneo, ctonio, di un ritorno a una società chiusa e non a una società aperta. Un bene? Un male? Lo sapremo nei prossimi anni. Però il tema è questo. Io dico che la politica lucana agisce su uno specifico antropologico e sociale preciso. Forse ha ragione Viti. La lucanità non esiste, è un’astrazione o una forzatura. E però, stranamente, io percepisco che esiste qualcosa che noi possiamo ricondurre a un ethos specifico. 

Vincenzo Viti La lucanità rappresenta un valore, ma anche e un rischio. La puoi viverla come valore se  serve a salvaguardare l’identità dui una regione, ma diventaè un limite se la esclude da una fluidità di relazioni, di maturità di pensieri, di conoscenze di modernità dalla quale la Basilicata non può appartarsi. Io, come Di Consoli, penso che la Basilicata sta vivendo una crisi di solitudine, di separatezza, e la sta vivendo come un vulnus profondo che deve superare. L’occupazione, lo sviluppo, l’uso delle risorse energetiche: sono temi cruciali della strategia non solo lucana, un tema da giocare a livello globale.  Ora, una classe dirigente nuova, quale si pretende, deve investire sul globale, deve  evitare di rinserrarsi in una specie di orto concluso e farsi dominare dal particolarismo locale. 

Andrea Di Consoli Viti ragiona da politico. Io sono un visionario che mette in campo anche  incubi. Vincenzo ha un dovere politico e non può non confrontarsi con quella che Shakespeare definiva l’importanza della maturità. Il mio punto di vista è diverso. Io dico che la verità è tutto.  E quando dico verità intendo qualcosa di estremamente inafferrabile. Comincio ad avere delle serie difficoltà  come intellettuale a decifrare  congegni sociali troppo  ampi: nel senso che noi possiamo anche immaginare la vicenda lucana inserita all’interno di una vicenda nazionale, europea e globale. Però ecco il demone di cui parlavamo prima.   Possiamo anche girare il mondo, e illuderci di essere cittadini del mondo, ma siamo profondamente ancorati a una koiné e a una lingua che è estremamente oscura. La  koiné per me è fondamentale. Perché i linguaggi sono universali ma le lingue non sono universali.  Così come non è universale il carattere di una persona. Per questo dico che il futuro – che vedrà crisi della democrazia e crisi della società aperta – sarà una ridefinizione profonda delle epoche buie nelle quali i popoli sentono di doversi ricompattare. Ora qual è la critica astorica che io rivolgo ai politici? E’ quella di aver fondato il patto sociale degli italiani sul benessere.  Il problema è che nel momento in cui abbiamo fondato un patto  sociale  tra italiani e tra lucani  sul solo benessere abbiamo giocato in maniera pericolosa perché non ci siamo domandati:  ma cosa accadrà il giorno che quel benessere non ci sarà più? Non ci siamo posti  la domanda fondamentale: cosa ci terrà uniti quando non avremo più  la possibilità di avere un lavoro facile, non ci sarà più la possibilità di garantire  un minimo di benessere a tutti?  Per questo io dico: attenzione che stanno riemergendo pulsioni antiche.  Perché nel momento in cui il patto sociale non sarà più fondato sul benessere, inevitabilmente sarà fondato su altro, su sentimenti oscuri che io come scrittore vedo anche in modo positivo. Ecco la differenza tra uno scrittore e un politico. Un politico democratico guarda con preoccupazione  questo.  Un intellettuale invece  sente il richiamo del torbido, dello ctonio, di qualciosa di sotterraneo. Non si fanno mai i conti col fatto che la più grande rivoluzione  che italiani e lucani hanno attuato negli ultimi 45 anni è quella religiosa.  Non possiamo ignorare questo quando parliamo di politica: nel senso che il benessere era sostanziato da una morale che diventava etica: etica del lavoro, del rispetto, della convienza civile. E’ normale  che noi siamo passati dall’ essere da uno dei paesi più religiosi al mondo  a uno dei più scristianizzati del mondo. E quando parlo di Cristo e Cristianesimo, e getto la Croce nell’agone politico, non parlo del cristianesimo  di chi ha fede, parlo di quello che è espressione non solo di una lingua, di una koiné, ma  espressione massima di quella sperdutezza che il popolo vuole sia rappresentata.    Pregare non è solo pregare un dio che c’è. Significa mettersi  in una condizione di disponibilità. Questa fragilità umana è nella nostra storia, è nel nostro carattere, lucano o no, ma nel mio popolo lo sento. Perché sono estremamente violento contro quelli che dicono: bisogna superare  Levi? Perché per loro  dobbiamo continuare a fondare il patto sociale sul benessere e sullo sviluppo, sulla modernità , sulla tecnica della modernità. Invece il patto sociale era proprio in quello stare in ginocchio, in quell’essere sperduti. Quando Viti oggi parla delle sue vicissitudini giudiziarie ne parlava con sperdutezza, come uomo tra uomini, e non  come mandarino in una provincia  sperduta dove ci sono dei sudditi che sono subalterni a questa classe dirigente. Ecco perché il dato giudiziario oggi dominante è così prevalente è perché non c’è più la fraternità. 

Vincenzo Viti Ci  sono stati momenti in Basilicata in cui la politica ha supplito alla religione. Anzi, è stata religione, ha mediato tra aspirazione ideale e una condizione materiale. E questo sensibilità per la religione mi fa pensare che Di Consoli sta facendo un’operazione pasoliniana:  è nella stessa condizione di spirito dello scrittore friulano, usa  gli stessi strumenti concettuali, analitici, filologici con cui Pasolini aggredì la crisi e avversava l’industrializzazione e il  benessere. Ma Andrea, rispetto al poeta delle Ceneri di Gramsci,  si pone il problema inverso: di capire come si può uscire da un’età in cui il benessere è stato il fatto dominante  del costume e della politica – tagliando la radice a un sentimento religioso che ha perso la base escatologica ed è diventata puro messaggio sociale, pura dimensione secolare -. Tuttavia Di Consoli non crede alla religione come fatto metafisico, ma estetico. Per lui la religione ha una sua estetica. Sta vivendo questo pasolinismo a parti rovesciate. Lui dice: siamo arrivati a un punto nel quale il rovesciamento della prospettiva ci deve portare a capire come si può recuperare quella profondità che può dare alla politica la  capacità demiurgica che ha avuto in certi momenti. Una demiurgia che ora  manca perché la  politica lavora sul pelo dell’emergenza, della banalità.  O la politica recupera profondità e altezza oppure non serve più.    

Andrea Di Consoli Sono accusato di fare antipolitica.  Ma io ho sempre cercato di dare alla politica spunti concreti. Quando io ho messo in discussione l’impianto illuministico della politica volevo richiamare l’attenzione sul fatto che quando non riesci più a sostenere un patto sociale sul benessere,  quella sacralità democratico-illuministica va in crisi.  E gli strumenti sui quali si basa diventano carcasse vuote che non significano più niente. Ttra qualche mese noi affronteremo in Basilicata la campagna per le elezioni regionali, io immagino l’angoscia di centinaia di candidati che dovranno andare tra la gente con un vecchio paradigma e dire  “Useremo meglio le risorse , convertiremo i poli industriali, sburocratizzeremo, creeremo delle condizioni per fare sviluppo. E’ un linguaggio non è una lingua. La gente guarda con diffidenza a queste parole e le bolla come promesse. Il patto oramai si è sciolto. Mi rendo conto che sto portando nel dibattito politico un fattore ics che è molto ostico, pericoloso. Oscurantista, in questo momento. Per parlare con le persone non puoi non mettere sul tavolo i grandi temi. Per questo io parlo di morte. Mi rendo conto che è un paradosso. Però oggi ci troviamo in una situazione sociale in cui la gente ha la chemioterapia all’avanguiardia  per curarsi un tumore ma la gente non riesce a dare più un senso alla malattia alla morte, al loro stare al mondo. Io non  sono un neocomuitario. Dico però che bisogna intercettare nuovamente le domande e i bisogni delle persone. E arrivo al paradosso dei paradossi. Che in questo momento la principale domanda in Basilicata non è di lavoro e di reddito.  Ma di significato.della difficoltà di questo momento contraddittorio, che sente il peso di un’eredità che è collosa, vischiosa, perché non puoi non emozionarti fino in fondo nel vedere la desolazione dei nostri paesi, la tristezza del nostro paesaggio, il dolore della nostra storia, e anche il dolore di oggi. Per questo abbiamo bisogno di una poesia disperata che entri prepotentemente nella politica. Perché se la politica continua a essere il vecchio paradigma sacerdotale per cui arrivo io e ti dò il posto fisso e ho risolto il tuo problema, la politica perderà e i cittadini si allontaneranno sempre di più. Il paradigma deve cambiare. C’è bisogno che il politico diventi un sacerdote diverso, nuovo, un sacerdote che racconti in profondità l’animo dei lucani. Nel quale io ancora credovv. Ma io voglio porre un problema. Hai fatto un discorso che è di grandissima suggestione, lui ha questo onesto scetticismo nei confronti della politica. E io capisco il perché…perché tu fai una riflessione che non solo è vera, ma  tocca la politica nella sua istanza fondamentale, eversiva. Quando tu parli di istanza poetica della politica, una politica che sia capace di cambiare i contorni del reale e di promuovere fatti nuovi, eventi straordinari, dici una cosa nella quale io mi riconosco …ma due problemi io ti pongo. Abbiamo mai pensato a delle agenzie formative che possano in qualche modo ricostruire  i legamenti sociali i fondamenti di tipo religioso, religioso in senso laico. Dove può svilupparsi, dove può nascere questa riflessione ampia densa profonda, alta che può innervare la politica e indirizzarla a quella sfida. Secondo. Siamo in una situazione di totale frammentazione, con un pulviscolo di domande, di ansietà, proposte. Come fai a riordinare questa materia, questa ricchezza in movimento se non all’insegna di un ‘idea che non sia quella del posto di lavoro o della promessa elettorale, ma che sia la ripresa di un percorso o di una linea che ridia fiducia alla gente, al dato metastorico della politica. Come si fa?  Ecco, il problema che mi pongo io come osservatore delle cose e come politico ancora in permanente impegno, (non sarò un politico elettivo d’ora in poi perché arriva un termine a tutto, alle esperienze umane) ma devo stare sul campo e dire la mia.  Mi pongo il problema di ciom esi può procedere, inventare una procedura di formazione di ricostruzione antopologica di questa comunità Perch il dato è questo: lui è il pasolini locale, del quale ha rovesciato il paradigma, Ha ripreso dalla coda il processo. Di fronte al deperimento delle risorse al venir meno dello schema dello sviluppo, alla scomparsa del benessere…com gestiamo questo passaggio di povertà struggente e operosa e inginocchiata, come l’aiutiamo a risollevarsi…e  con quale lingua l’aiutiamo a intepretare i codici attraverso i quali si possa riconoscere in una prospettiva di futuro? Questo è il dato fondamentale.  DCI. Una delle cose che mi preoccupa molto è che non si capisce Non c’è più il centro. La rete è senza centro. Come si ricostruisce il centro. Un dato psicologico spirituale. Comwe ci si riconnette rispetto a un centro. Una speranza civile nuova che bisognerà alimentare, ch  in ìnome di una prsopsettiva che si faccia amare dalla gente. La politica deve tornare a frarsi amare. Se in questa regione riuscissimo a mettere insieme un gruppo di persone, di scrivere raccontare elaborare un documento sulla sofferenza di questa regione, individuando le possibile strategie di salita. Il problema vero è come rapporti la popolazione con un equilibrio nuovo,. Perché la Basilicata non vive in una dimensione di benessere.

Vedi Vincenzo, ogni volta che, in una qualsiasi parte del mondo, mi sono trovato ad avere a che fare con dei lucani ho trovato persone che si ponevano il problema della verità. Una verità riconducibile, nel nostro caso, a una geografia. E che cos’è la verità per un lucano? E’ qualcosa che è già accaduto. Non l’attesa di un evento, di un messia. I lucani sono restii all’idea del futuro, dello sviluppo. In loro c’è la convinzione intima, precristiana, che la verità è un fatto dato tanto tempo fa. Sono ossessionati dalla ricerca di questa verità originaria andata persa. Lo stesso lucano è un individuo sperduto. Sia che resti nel suo paese, sia che viaggi. Senso di appartenenza e sperdutezza, dunque. Capisco la frustrazione dei politici lucani. I quali, domani, andranno casa per casa, paese per paese, a chiedere un voto. E si troveranno davanti uomini rancorosi, o depressi, o indifferenti.  I politici hanno sbagliato. In anni recenti hanno predicato la sobrietà, la famosa sobrietà della Lucania, anziché, fare esercizio, essi stessi, di umiltà. E invece è necessario che essi stessi  recuperino la propria sperdutezza se vogliono ritrovare il contatto con un popolo a sua volta sperduto.

Ora,  in che modo la politica può farsi interprete di questo popolo, toccarlo nel profondo? Comprendendo che il lucano non chiede semplicemente un rinnovamento della politica. Chiede che a rappresentarlo ci sia un uomo come lui, l’uomo sperduto, in ginocchio: un uomo che senta tutte le difficoltà di questo momento critico e il peso di un’eredità vischiosa. Un uomo che sappia emozionarsi per la desolazione dei nostri paesi, che assuma su di sé il dolore della nostra storia. Ecco perché dico che la poesia, una poesia disperata, deve entrare nella politica. Ma se si continuerà col vecchio paradigma, quello per cui il politico arriva e dà il posto fisso, allora è la fine della politica. E i cittadini si allontaneranno sempre di più. No, il politico deve diventare un sacerdote che sappia vedere l’animo dei lucani, che esiste!, e immedesimarsi in esso.

Vincenzo Viti

Capisco questo tuo scetticismo, onesto,  nei confronti della politica. Lo capisco perché, nel tuo discorso, hai toccato l’essenza stessa della politica. Di una politica alta. Che cosa è infatti  questa poesia di cui parli, una poesia che dovrebbe fondare lo stesso discorso politico? E’ quell’istanza profonda, eversiva, di cambiamento, che vive nella politica: è il sogno di cambiare la realtà, di promuovere fatti nuovi e straordinari che incidano sulla società. Ma, detto questo, io mi pongo e ti pongo due problemi. Il primo è che, forse, è necessario, per inverare il tuo discorso, che si creino scuole attraverso le quali formare quei sacerdoti della politica in grado di ricostruire i legamenti sociali. Ma, ancor prima, c’è bisogno che questa riflessione si allarghi e possa innervare la politica dandole insieme un nuovo impulso e un nuovo indirizzo. E tuttavia, ecco il secondo problema, noi viviamo in una situazione di enorme frammentazione umana e sociale. Ci troviamo davanti a un pulviscolo di domande, di proposte, di aspirazioni. Ciò che tu chiedi è un’opera di ricostruzione antropologica di una comunità. Ma come fare? Come riordinare questa ricchezza in movimento?

Vedi, tu hai ripreso dalla coda il discorso di Pasolini e ora ti domandi: cosa fare di fronte al deperimento delle risorse e al venir meno dello schema dello sviluppo, alla scomparsa del benessere?  Ma la questione vera è: come gestire questo passaggio, come dare alla comunità una lingua attraverso la quale essa possa leggere una prospettiva possibile?

Bisogna capire che oggi non c’è più un centro. Una società liquida non ha un perno,  è dispersa nella rete. E come si ricostruisce il centro? Come ci si riconnette attorno a esso? Si tratta di una questione ideologica, spirituale, prima che materiale.  Il tema che tu poni è quello di una speranza nuova, una speranza civile che bisognerà  alimentare non in nome di una predicazione ma di un progetto che acquisti il carattere del coraggio, di un’alta eticità che consenta di superare le banalità. La politica non è amata, deve tornare a farsi amare. Deve tornare a essere condivisione, identificazione, passione. E allora ti faccio una proposta: siamo capaci, in questa regione, di mettere insieme un gruppo di persone che sia capace di elaborare un documento sull’antropologia sofferente della Basilicata, sul punto di caduta in cui siamo arrivati, e che individui anche le possibili vie di risalita? 

Andrea Di Consoli

Io pongo un tema, non ho la forza per indicare strumenti e strategie. Però direi di non sottovalutare questo dato: che vale per la Lucania, ma soprattutto per l’Italia. Siamo ancora una delle grandi potenze industriali del mondo, e però siamo gli unici che hanno rifiutato la koiné oggi universale, vale a dire l’inglese. Lo parla una piccolissima parte del Paese. Che significa questo? Che siamo un paese che conta sulla sua creatività  e su un legame profondissimo con la sua storia, con la tradizione. La verità è che stiamo rifiutando la globalizzazione. La usiamo come un taxi, ma non siamo capaci di pensare globalmente. In tutto il Paese, non solo in Lucania, c’è un conservatorismo radicato.  Una nostalgia. E allora: come ricostruire qualcosa che noi sentiamo di aver perduto?  Il tema della religiosità è centrale. Perché abbiamo bisogno di scardinare quell’individualismo autistico, saccente, sazio, invidioso.

Vincenzo Viti

In effetti, se c’è una cosa che contraddistingue la Lucania, e Matera in particolare, è proprio l’invidia  sociale. Qui si lavora non per fare, ma per impedire di fare. C’è una sorta di anomia, di perdita di sé. Quando parli di sperdutezza tu individui anche una delle tare fondamentali del nostro viver civile. Siamo divisi da un odio secolare.  Siamo abituati a segnare sempre il confine. Oggi fare una battaglia collettiva è difficile perché siamo tutti assorbiti dalla consumazione di noi stessi. Un atteggiamento che ci porta a non guardare l’altro, a ostacolare la porosità, la fluidità di rapporti. E’ la nostra debolezza storica. Una carenza costitutiva, morale, educativa. Mancano le agenzie di formazione, le scuole di partiti, i luoghi che ieri hanno formato classi dirigenti che sono state capaci, con tutti i limiti che hanno avuto, di imprimere un segno duratuiro in questa regione. Dove sono oggi i luoghi nei quali ci si forma un’idea generale del  paese, in cui si è capaci di immaginare il futuro?

Andrea Di Consoli

Io so questo, che la solitudine, accoppiata all’individualismo figlio del benessere, ha prodotto in Lucania una estesa classe sociale piccolo borghese. Siamo passati da una società contadina a una piccolo borghese, di impiegati, che sono la nostra zavorra. Il nostro problema è rappresentato proprio da quelli che non sentono il rischio e la paura, da quelli che hanno  uno stipendio garantito.  E’ una piccola borghesia in via di estinzione, che però in questo momento è forte. Io rappresento, al contrario,  quelli che stanno nella terra di nessuno, dove ci sono, a volte,  rancore, ottusità, prepolitica, postpolitica, pulsioni differenti: sono gli irredenti, gli indomiti, che ora cominciano a diventare la maggioranza della Basilicata. La quale non può essere rappresentata dall’antipolitica perché le domande che pone sono molto profonde. Tutto questo può sembrare astratto, ma non lo è per niente. E’ astratto, al contrario, quel che accade nel Pd, dove ci si divide in base a persone, filiere..

Vincenzo Viti

Parlare di schieramenti, di perimetri politici…che senso ha, oggi? E’ solo intorno a un progetto, a un’idea nuova della Basilicata, a un recupero della totalità della politica in senso antropico, religioso, civile, che si può immaginare un futuro del centrosinistra. Occorre un speranza nuova. E il dibattito deve partire adesso. Domani è troppo tardi. Partendo, se vuoi, da ciò che stai seminando tu. La cosa che più mi piace del tuo discorso è che poni al centro il tema di come si può redimere la politica, riportandola a una funzione alta.Oggi è difficile ricostruire, riaggregare, dare risposte e speranze. Ciò non vale solo per la Lucania.  CI sentiamo in una condizione di aporia, dell’impossibilità di agire.

Andrea Di Consoli

Eppure proprio quest’aporia può diventare la rappresentanza politica. Perché la politica non dovrebbe ammettere la propria debolezza, la propria impossibilità di riaggregare, l’ incapacità di creare scenari futuri, di cambiare le cose?  Come tutti gli organismi viventi anch’essa ha le sue fasi di depressione, di malattia, di smarrimento. Non possiamo chiedere alla politica di esprimer sempre una capacità demiurgica. E la risposta non è l’antipolitica. Fingere d’esser capaci di  aggregare e dare risposte alla comunità  è pericoloso. Occorre uscire da quel paradigma, La politica non correrà invece  alcun rischio se saprà incarnare quella sperdutezza di cui parlavo prima. Il politico deve assomigliare a quell’uomo inquieto che, pregando, accoglie dio anche se, magari, non ci crede. Se vuole salvarsi, la politica deve essere umile.

Io sono figlio di contadini, vengo dalla terra, ho un culto estremo per tutto ciò che si presenta in maniera umile, fraterna, dimessa. Non riesco a dialogare con questa contemporaneità.  Odio la tracotanza del benessere, propria dei piccolo borghesi , non è neanche esteticamente interessante. Nella povertà, anche in quella più brutta, invece, io ho sempre visto una luce. E quella luce che aleggia sul mondo descritto da Levi è perduta.  C’è qualcosa di volgare in chi è progressista convinto in Basilicata. In questo mostrarsi appagato della globalità, della modernità, della liquidità, vedo un tradimento.

Perché, vedi? Io vivo come esiliato a Roma, ma i miei pensieri partono sempre da qua. Dalla koiné lucana, dalla lingua madre. Il mio italiano nasce in un fazzoletto di terra ben preciso. Ammetto una solitudine profonda. Che non è quella del profeta, un clichè che non mi interessa. È la solitudine di chi cerca altri fratelli con cui condividere queste riflessioni. E dove trovo quest’inquietudine? Nelle persone che non hanno alcun tipo di potere. Negli anziani, soprattutto. Poi in alcuni giovani. L’altra notte mi è giunto un messaggio da un amico del mio paese: non dormiva, era in preda ad incubi , pensava al paese. Anche lui non riesce  a sciogliere questa contraddizione nella quale si trova. Tu potresti dirmi: questo è un atteggiamento regressivo, così rifiuti il mondo che va avanti. Ma non è così. Leggo in quel messaggio un’energia vera. Perché l’Italia è così sperduta? Perché siamo tutti spiantati? Perché c’è questo consumo di antidepressivi?  Perché siamo un popolo che oscilla tra la depressione e un’euforia patologica? Proprio perché siamo fuori dalla nostra energia. E questa energia coincide con qualcosa di oscuro che è la terra. In Italia c’è una grandissima esigenza oscura di ritorno alla terra, una condizione prefascista.

Vincenzo Viti

Ma, tornando alla politica, la domanda che poni è dirompente: la politica deve essere forte o mite? Io ricordo ciò che diceva Mino Martinazzoli: “Io sono per una politica che trova la sua forza nella mitezza”. Nel senso di vivere in una condizione di appagamento cristiano, e di lavorare per trasformare le cose avendo in testa un’idea di cambiamento. Tu dici: la classe dirigente nuova va cercata tra coloro che non hanno potere. Non è del tutto vero: ce ne sono ancora tanti nel mondo politico che possono e essere reimmessi in un circuito virtuoso.

Abbiamo davanti un passaggio politico decisivo. Le elezioni di novembre sono drammatiche. Si va verso una polverizzazione della proposta politica. Non vedouna linea. Le filiere del partito si contendono quel che resta del Pd. Né c’è un’opposizione. O almeno un’idea liberale di opposizione al centrosinistra.  Quanto al centro, esso è il frutto della scomposizione; non nasce da un’idea originaria, dal lievito della società. E’ l’esito estremo del trasformismo. Con il centrosinistra avevamo avuto un’occasione importante che si è infranta con la rottura traumatica della Giunta. Stavamo lavorando a una nuova legge regionale che realizzasse una distribuzione vera delle competenze sul territorio, superando l’impostazione centralista. Da lì si dovrebbe ripartire per ripensare la regione: non più come sistema di norme, ma come inveramento di una procedura di democrazia, che colleghi in alto e in basso la Basilicata: attico e sottosuolo.

Andrea Di Consoli

Cominciando questa conversazione abbiamo parlato di crisi della democrazia e della società aperta. Ora vorrei aggiungere un terzo spettro. Parlo della crisi del riformismo. Noi abbiamo sperimentato in Basilicata un’alta cultura riformista. Ma oggi esso è soltanto un’ altra cultura sterile. Perché, cos’è il  riformismo? E’ agevolare processi che rendano più rapido ed efficace il governo.  Oggi, proprio perché il sottosuolo è predominante, tramonta la convinzione che il riformismo possa risolvere i problemi. Quel che affiora in questo momento è un inconscio collettivo molto forte. I temi razionali agitati dai riformisti non attecchiscono più. Aggiustare una strada, rendere migliore una biblioteca, dare soldi a una scuola:  non sono più parte di un disegno politico. Tutta la lezione dei grandi riformisti meridionali ormai è inutilizzabile. Perché la gente non vede il quadro d’assieme.

Insomma, è un momento ricchissimo da un punto di vista estetico, ma pericolosissimo se lo guardi dall’angolo visuale della politica, perché quando i popoli cominciano ad “annottarsi”, può accadere qualsiasi cosa. Noi non siamo un popolo che insegue modelli eversivi o autoritari. Prevedo una cosa più triste, una implosione, uno spegnimento. A meno che non si cambi modo di fare politica. Un politico oggi ha più facilità a entrare in empatia con le persone se dice che ha un tumore, che è depresso, che ha divorziato,  che ha paura. Perché nel momento in cui apre se stesso, egli  si mette in relazione con una lingua, con una koinè, con uno stato d’animo diffuso. Ma quando si presenta come uomo del riformismo, il politico usa un paradigma che non funziona più. Ecco anche la ragione per cui tante volte ho litigato in passato con te, quando eri capogruppo. Ce l’avevo con il tentativo di tenere in vita un paradigma che non funzionava più. Lo facevi benissimo,con uno spirito religioso profondo. Non ce l’avevo con te. Se tu oggi ammetti una sperdutezza di fronte a quest’indagine che hai subito è perché tu stesso hai dovuto fare i conti, drammaticamente, con un clima che è cambiato.

Perché la magistratura oggi ha tutto questo potere? Perché la politica usa paradigmi ormai fasulli, incomprensibili. Nessuno ha voluto ascoltare la parte lunare, in ombra, della società. In questo vuoto di rappresentanza si è inserita la magistratura, ma in un modo completamente sbagliato. Perché il problema non è arrestare un politico, o condannarlo. E’ metterlo nella condizione di essere uomo tra gli uomini. Sperduto tra sperduti. La magistratura oggi ha tutto questo potere perché nessun altro ha il coraggio di capire che la democrazia e il riformismo sono in crisi. Che c’è un bisogno religioso e identitario e molto profondo di verità. Se non si capisce questio continueremo a litigare sulle filiere, sul centro, sul centrodestra, su chi sarà il prossimo presidente…

Vincenzo Viti

Si chi è titolare del rinnovamento…Guarda il Pd, che si comporta come se avesse un’investitura divina, e dovesse spiegare agli altriin che cosa consiste il rinnovamento…è inaccettabile.

Quanto al riformismo, bisogna distinguere, come faceva Lombardi, tra riformisti e riformatori, vale a dire quelli che hanno una capacità reale di trasformare le cose. Il riformismo è un termine usurato. Lasciamelo dire, sono stato deputato per 15 anni, ho fatto, con Colombo,  la legge per i Sassi, ho portato il polo universitario a Matera, ho innescato il processo di rilancio culturale e turistico della città. Quello era il tempo delle riforme che lasciavano tracce sul territorio, che erano ispirate da un disegno, da un’idea lunga, che avevano dentro una forza progettuale.

Ma oggi siamo in un altro tempo. E da questo dibattito sul territorio emerge una prospettiva sulla quale si può scommettere. Tu sei il religioso,  io il laico che si incarica di incamminare lungo un solco storico e politico questa speranza.  Ma c’è bisogno che venga fuori la profonda radicalità di questa crisi.

Andrea Di Consoli

 Quando si fece quella legge sui Sassi, quando si fece il polo universitario, e poi la Fiat, e la ValBasento, e le dighe  era un riformismo che derivava da un’idea forte. Oggi i ragazzi non sanno perché studiano, si avvicinano all’università senza speranza. E’ per questo  che  bisogna andare a fondo nell’analisi di questa crisi, di questo sbandamento. Io faccio la diagnosi, ma è la politica che deve fare il resto. Il tema del rinnovamento è sbagliato: la soluzione non è nel ridurre i margini della corruzione, della malversazione, della politica politicante. Il vero problema è provare a capire che cosa sta accadendo in questo momento della società e non vedo letture di questo tipo. Si parla tanto di meritocrazia,ma è un discorso che annichilisce, è un proponimento aggressivo e anche antistorico. E’ un tema quasi razzista, con una popolazione in ginocchio. 

E su cosa si sostanzia questo rinnovamento? Sul fatto che bisogna esser più veloci, guardare le nuove tecnologie, comunicare molto. Mario Perniola ha spiegato bene la differenza tra espressione e comunicazione. Oggi c’è un’overdose di comunicazione. E’ il motivo per cui nessuno legge più i giornale. Perché non c’è espressione. Non c’è più, lingua. C’è solo linguaggio.

La gente ha bisogno di sapere cose vere: il corpo, il tempo, il rapporto col territorio. Io non lo vedo questo rinnovamento. Vedo solo logiche tribali. La parola d’ordine è: uccidere i vecchi per prendere il potere.

In un’intervista a Paride Lepotrace dissi: sogno una rivoluzione fatta dai vecchi. Non fui capito. Io voglio al potere persone che non hanno niente da perdere. Che vivono ogni giorno come se fosse l’ultimo. In questo momento la rivoluzione solo loro la possono fare. I vecchi   sono in ginocchio. I giovani spavaldi, per definizione. Una spavalderia che offende la gente che non ha gli strumenti, le possibilità di essere in quell’avanguardia della globalizzazione dove entrano pochissime persone. Alvecchio tremano le mani. Si commuove facilmente,  sente la propria fragilità e quella di chi gli sta di fronte. Per questo dico che la Lucania ha bisogno dei vecchi non dei giovani.

 

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