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LA MIA LONTANANZA dalla città di Matera non mi ha fatto seguire con puntualità il dibattito che si è aperto intorno alla città di Matera, alla sua identità e al suo futuro. Ne ho lette tante. Di alcuni interventi non ho capito granché, data l‘astrattezza del linguaggio usato. Non pochi, tra i nostri secredenti intellettuali e pontefici, credono ancora  che parlar difficile significa parlar profondo. In premessa, invece, per chiarezza, vanno dette almeno due cose. La prima è che nel dibattito non si è parlato del passato, cioè della storia di Matera, che forse potrebbe offrire una chiave per leggere almeno il presente; la seconda premessa è che discutere  della identità di una città è cosa ardua, che non converrebbe forse nemmeno affrontare. Della città di Matera si è discusso come “città della cultura”; ma è definizione assolutamente incongrua, perché bisognerebbe innanzitutto  capire che cosa si intende per cultura, essendo questa come una notte nera in cui tutte le vacche sono nere. A qualcuno, inseguendo false fole, potrebbe venire in mente che Matera sia città della cultura, mentre non lo sarebbero Firenze, Siena, Roma, Urbino e San Marino. Vedo che su altre, illuminate sponde, finora unico, è l’avvocato Nicola Buccico.

Matera, a sentire e a leggere in molti, se non in tutti gli altri, sarebbe città della cultura  perché ha la Murgia e i Sassi. Non si considera che tanto la Murgia quanto i Sassi non sono elementi  sufficienti per parlare di “città della cultura”, anche perché, a guardar bene, gli stessi elementi si ritrovano in paesi vicini, quali Altamura, Gravina, Massafra, Laterza, Martina Franca, Ginosa, ecc. Matera, del resto, ha troppe altre  definizioni. Di volta in volta è stata  “Città capitale contadina”, “Civitas Mariae”, “Città della pace”, “Città del tufo”, “Città sotterranea”,”Città più antica del mondo”… E’ appena il caso di dire che una città che ha tante definizioni, evidentemente è alla ricerca di una identità, che di volta in volta, invece, le viene attribuita, quasi esercizio intellettuale di una classe dirigente e di un ceto che si dice colto e che della classe dirigente è emanazione. L’una e l’altro, comodamente assisi sugli scranni più alti della società, della economia e della politica locale, lavorano a costruirsi una città “bella” che, fatta su loro misura, sia di proprio gradimento ed esclusivo godimento. Quasi fiore all’occhiello. Ciò è quanto successo negli ultimi cinquant’anni..

In effetti, fino a tutta la prima metà del Novecento, una identità definibile la città ce l’ebbe. Matera, fino al 1950, fu città del latifondo, cioè feudale. E’ quanto rilevarono tutti gli studiosi venuti dall’esterno ma non quelli interni, che, essendo, come si è detto, emanazione della proprietà terriera, non avevano interesse a mostrarne la iniqua distribuzione. Nel 1754, i tre quarti della proprietà terriera erano nelle mani della Chiesa e di sette o otto famiglie nobili. L’agricoltura esercitata era tutta a carattere estensivo e cerealicolo. Ciò che fece la fortuna del grano, del pane e della pasta di Matera. Il resto della popolazione, cioè dodici-quindicimila diseredati, vivevano nel bisogno, strettamente dipendenti dai pochi che avevano la ricchezza. Un qualche elemento di novità si ebbe solo con l’unificazione d’Italia, quando parte delle terre della Chiesa fu messa all’asta. Ad acquistare furono o i signori di vecchia tradizione o alcuni nuovi intraprendenti e spregiudicati operatori, spesso venuti di fuori, che, non più di nove o dieci, senza cultura, rozzi, sono ben identificabili nella immortale figura verghiana di Mastro don Gesualdo. A questi nuovi ricchi (Montemurro, Lamacchia, Riccardi, Gaudiano, Volpe, Vizziello, Tortorelli, Lacopeta…) spettava il titolo di “patrun”, non di “don”. La città rimase pur sempre spaccata in due, anche urbanisticamente. Sopra, sul piano, i palazzi dei benestanti; sotto gli abitanti delle grotte. La città dei Sassi non esisteva, cioè non si vedeva, nemmeno fisicamente. La sorella di Carlo Levi, nel 1935, arrivando, non la vide. La vita di campagna era raccolta intorno alle schiacciate e tufacee masserie, in cui si raccoglievano salariati fissi e stagionali, in completa promiscuità di uomini, donne, bambini e animali. Gerarchicamente organizzati e sorvegliati da ruvidi massari, vivevano, secondo un termine usato da Vito Gambetta nel 1905, in una condizione igienico-sanitaria e alimentare di assoluta “meschinità”.

Questa situazione, mai evidenziata dalla cultura del luogo, sorprendeva invece l’estensore della relazione Franzoni, che, sempre all’inizio del secolo scorso,  parlava di una “impressione dolorosa”, che si faceva tanto più dolorosa quanto più si “notava l’indifferenza con cui le persone intelligenti e colte del luogo assistevano a  questo miserevole spettacolo; e come in esse l’abitudine avesse prodotto l’insensibilità”. L’osservazione poteva essere rivolta anche al molto, per altri versi, benemerito Domenico Ridola, attento ai fossili, ma completamente silente sulla miseria di migliaia di suoi concittadini e sulla assurdità di una condizione che, proprio perché assurda, lo vedeva tra i privilegiati. E valga per Gattini, per Volpe, De Ruggieri, Longo, Giura, Sarra, ecc., che, nelle elezioni, si contendevano il voto dei pochi privilegiati come loro, essendo negato il voto al popolo.  Un’opera “pericolosa” di rivolta fu avviata nel 1902, da Luigi Loperfido, il “Monaco Bianco”. Un suo seguace fu ucciso; lui stesso con altri venti seguaci, contadini, finì in carcere e, quindi, dissuaso dal continuare nella sua opera di sobillatore. Chi si scandalizzò della situazione, manco a dirlo, fu addirittura il primo ministro dell’epoca, l’onorevole Zanardelli, che, nella memorabile visita del 1902, rimase inorridito quanto De Gasperi e Togliatti cinquant’anni dopo. Ma veniva da Brescia.

Le cose si misero in moto solo dopo la caduta del fascismo, l’avvento della Repubblica, la Costituzione e il voto dato a tutti. Per le battaglie elettorali e per una eventuale vittoria, ormai era importante conquistarsi il voto dei 18.000 abitanti del Sassi. Furono gli anni della organizzazione dei partiti di massa, dei sindacati dei lavoratori, della Alleanza contadina, delle Assise per la terra, della occupazione delle terre, di un  mitico sogno: il comunismo… Dall’esterno, da Roma, arrivavano i funzionari di partito, intellettuali interessati al Sud. Furono gli anni del risveglio. Matera, su suggestione di Carlo Levi, diventò la “capitale contadina”. Si parlò di lotta per “libertà contadina”, di cui, corifèo, su proposta di Levi, fu Rocco Scotellaro. Si ebbe una casa editrice di avanguardia, la Montemurro, e riviste di buon livello, come “Basilicata” e “Sud letterario”, diretto da Enzo Contillo, un cui numero finì nella biblioteca di Benedetto Croce. Si aprirono nuove scuole statali, cui si iscrissero ragazzi di umile estrazione. Conquiste furono la Riforma Agraria del 1950 e la legge di risanamento del Sassi nel 1952. Poi venne la caduta dei miti. La Riforma Agraria arrivava, purtroppo, quando si stavano realizzando la rivoluzione industriale e la meccanizzazione della agricoltura. Fu fatale la crisi del settore e la espulsione di molti addetti dai campi. I contadini materani, già svantaggiati dal possesso di poche aride terre, ebbero un motivo in più per abbandonare i campi. Ed era l’aspirazione ad avere una delle case  del risanamento dei Sassi, che non erano per contadini… Per averla, bisognava abbandonare la qualifica di contadini e passare – si disse  – all’industria, cioè al settore dell’edilizia, in grande sviluppo in quei mesi, considerata la costruzione di interi quartieri popolari per 18.000 abitanti.  Poi passò l’ondata della edilizia e non restò se non la grande emigrazione.

Dispersi i contadini per l’Europa e per il mondo,  svanita l’unità di classe, fattisi deboli il Pci e la Cgil, cominciò il quarantennale dominio della Dc, sempre sostenuta dal Vescovo, quale che fosse, dal Psdi, dal Pri e dal Pli e, quindi dalla stessa Cisl e dalla Uil, fino ad arrivare al Psi. Il Pci e la Cgil diventarono le organizzazioni da escludere e da discriminare. Enti parastatali e parapolitici  furono popolati da uscieri, bidelli, invalidi di guerra e civili, impiegati inutili e, naturalmente, diretti da boiardi democristiani. Un dato è che, fino al 1969, tranne uno o due casi, non si ebbero laureati nelle liste del Pci.

Insomma trionfarono i “luigini”, alcuni reperibili persino tra  i cosiddetti “amici di don Carlo (Levi)”. Quando poi, a metà degli anni 1990, cessò il predominio della Dc, fu il momento del Pd, che accolse gli eredi della Dc, araba fenice, che, avendo un retroterra di interessi ben amalgamati, e godendo ancora della qualifica di cattolici, ebbero e hanno troppa voce in capitolo. A sinistra, dopo il crollo di Berlino, invece, diventata impronunciabile la parola “socialismo”, ci fu l’arrivismo di singoli senza storia. Il Pd oggi è partito-città come lo fu, per un quarantennio, la Dc di Colombo e di Tantalo. La carriera e il posto di lavoro te li dà il Pd, che riesce a occupare giornali, a distribuire premi letterari e a dare incarichi universitari a “docenti” di cui, a fatica, cercheresti una produzione scientifica o una pronunzia civile. Si mobilitano le associazioni  tutte, piccole e grandi, intorno al mito del 2019, per cui si chiamano personalità esterne. E si consumano centinaia di migliaia di euro. Tutti, diplomati, laureati, architetti, guide turistiche, essendo disoccupati, cercano spazio e briciole. I migliori, i più dignitosi, vanno via, cercando libertà altrove. Sembra che ci sia molto movimento culturale; ma è accademia, tra molto “otium” e poco “negotium”.

Dove va Matera? – ci si domanda. Non verso il meglio, ma verso un conformismo sempre più accentuato, fatto di sorrisi e consensi cicisbei. Le associazioni culturali materane hanno sollevato un vespaio per un ponticello di ferro e per un parcheggio nei Sassi; non hanno detto una parola sulla chiusura dei salotti, dei pastifici, sulla mancata ferrovia, sulla mancata autostrada, sulla soppressione di corse Fal nei giorni festivi, ecc. ecc. Al posto della mancata ferrovia hanno proposto una pista ciclabile! Il tutto coperto dal coro “Viva viva il direttore, viva viva il 2019!”. Forse si accorgeranno di essere fuori pista quando avranno i primi furti in casa (che già in verità si segnalano). Il nuovo futuro, purtroppo, sembra essere un incomprensibile ed evanescente “cittadino culturale”, pronosticato dal dott. Verri, che, responsabile del Comitato 2019, è stato chiamato da Torino, forse perché, contraddittoriamente, anche chi parla di “Matera città della cultura” non crede  che a Matera ci sia cultura. O, forse, chissà, diffida di una cultura che non ha “amici”. Come è giusto che sia.

 

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