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Fino al 2 giugno, tra le eleganti architetture della prima capitale del Regno, riflettori accesi sul Torino Jazz Festival – il terzo targato Stefano Zenni – con un calendario ricco di avvenimenti di primo piano. Dietro solo ad Umbria Jazz per budget, il TJF sembra voler rilanciare, rispetto a quest’ultimo, un’idea più complessiva di jazz in bilico tra tradizione, pop e ricerca contemporanea. Non vi è dubbio che lo si possa considerare un festival di primo piano sulla scena europea grazie alle esclusive di Anthony Braxton, James Newton, Shibusa Shirazu, Omar Sosa, etc., ma la sfida più importante sarà quella di armonizzare dentro la città le infinite anime del linguaggio afro-americano in un evento-contenitore che possa essere fruito da tutti. Ne parliamo con Stefano Zenni, musicologo, docente presso i Conservatori di Bologna, Firenze e Pescara, presidente della Società Italiana di Musicologia Afroamericana e direttore artistico della manifestazione.
In qualità di direttore artistico, ci daresti qualche consiglio per vivere al meglio questo Torino Jazz Festival?
«Il festival è pensato come una specie di grande happening che coinvolge gli spazi della città. In fondo Torino, negli ultimi anni, è cresciuta moltissimo come luogo della cultura da visitare, con il patrimonio storico, gli edifici pubblici, i musei, le piazze. Mai come quest’anno il festival va a dilagare letteralmente in tanti angoli diversi della città, nei luoghi diciamo più suggestivi. Faremo di piazza San Carlo il cuore pulsante del festival; in piazza Vittorio metteremo degli stand che chiameremo cooking and relaxing, in cui si potrà danzare, bere, mangiare. Sempre in piazza Vittorio ci saranno le night towers, torri alte quindici metri in cui suoneranno i musicisti, ci sarà musica sul fiume e le street parade per le vie della città. Nelle corti dei palazzi del centro ci saranno invece dei piccoli concerti diurni. Questo, per quanto riguarda i concerti all’aperto. Ma siamo anche dentro il museo egizio, con Anthony Braxton, che in prima europea guida il Sonic Genome, grandiosa performance di otto ore con 70 musicisti, siamo alla GAM, siamo al Circolo Dei Lettori, nei Club, e poi siamo nei teatri. Siano essi storici come il Colosseo o il Carignano, oppure nuovi come il San Paolo, quello del grattacielo per intendersi, dove faremo concerti sabato e domenica mattina. Quindi come vedi sono musiche diverse pensate per luoghi diversi».
Da molto tempo lo spazio fra il linguaggio del jazz di “ricerca” e quello dell’arte contemporanea è sembrato assottigliarsi molto. In una città così attenta come Torino, che sta investendo tanto nell’arte contemporanea, posso chiederti qual è la tua idea di curatore della kermesse, o forse nella musica non è così lecito chiederselo?
«C’è da premettere che in un festival così grande è praticamente impossibile dare un’idea o meglio costruire un programma unitario. Anche perché, sebbene il festival abbia un direttore artistico, che sono io, in realtà è fatto di tante sezioni con una loro autonomia. Pensa solo alla sezione Fringe: tutta l’attività tardo pomeridiana e notturna è curata da Furio Di Castri. Almeno 130 musicisti per decine di concerti. Io e Furio ci parliamo e ci coordiniamo ma la dimensione è tale che non puoi controllare tutti gli eventi. Con il Cinema Massimo, per esempio, coordiniamo le tematiche dei film presentati, ma loro comunque lavorano in autonomia. Considera che ogni festival è anche un’organizzazione che cambia nel tempo, ha un’anima storica. Il mio compito principalmente è quello di migliorare le cose che non vanno bene. E se c’è un’idea di festival sottostante, essa riguarda le seguenti cose – e non dico che riusciremo in tutte. Per prima cosa il TJF proverà a presentare la varietà dei linguaggi che vivono nella parola jazz, perché come è noto essa assume significati diversi a seconda delle epoche. Oggi assume un significato molto inclusivo ed eterogeneo, pur riferito a musiche molto diverse e quindi non è un problema avere nello stesso festival Anthony Braxton, Hugh Masekela e Omar Sosa. La seconda cosa è che questa ricchezza di musiche deve avere ognuna un luogo adeguato, e quindi siccome Torino è una città estremamente ricca di suggestioni urbanistiche, ci ha avvantaggiato. La terza cosa che un festival deve fare è tener conto della ricchezza culturale locale. Di nuovo, siccome Torino è piena di bravissimi musicisti, di associazioni, di realtà che lavorano tutto l’anno, il festival cerca di coinvolgerle e di valorizzare il loro lavoro. All’inizio non siamo riusciti ad accontentare tutti ma adesso, edizione dopo edizione, pian piano, stiamo cercando di armonizzare situazioni molto eterogenee che a volte vanno in direzioni diverse. Sta a noi cercare di metterle insieme. Poi, quarta ed ultima cosa, ma non meno importante: un festival come il nostro deve offrire contemporaneamente un livello qualitativo il più alto possibile ma non deve trascurare l’idea di festa insita nel termine stesso. Quindi il pubblico si muove nella città, va nelle piazze, paga un biglietto (in qualche raro caso) per ascoltare della musica, e lo fa sia per la musica stessa sia per vivere un’ esperienza, come posso dire, totale, che non sia solo sedersi in un teatro ad ascoltare un concerto».
Posso chiederti qual è il budget del TJF e come vi collocate in termini di visibilità ed importanza?
«Il TJF ha un budget di circa un milione di euro. Di cui vale la pena di ricordare che i quattro quinti sono quasi tutti coperti da sponsor, la città copre solo le spese della comunicazione, dai depliant ai manifesti e agli spot. Ci poniamo come festival internazionale, per cui in quanto a originalità della proposta mi sento di dire che siamo uno dei più importanti festival europei. Anthony Braxton, James Newton, l’ottetto di Steve Lehman, Shibusa Shirazu, l’esclusiva italiana di Omar Sosa con il quartetto, la produzione originale di David Murray e la Lydian Sound Orchestra, il progetto di Danilo Rea, le residenze di artisti come Andy Sheppard, Francesco Bearzatti, Gavino Murgia, Bojan Z. C’è una quantità di progetti specifici che veramente non so quanti altri festival abbiano a questo livello. In ogni caso noi con questi festival collaboriamo. E poi stiamo collaborando anche quest’anno con conservatori come Chambery e Losanna e abbiamo avviato una collaborazione con Edimburgo. In più, in questa edizione, abbiamo un festival nel festival: X-Jazz, nell’ambito della rassegna Torino incontra Berlino. A livello di collaborazioni internazionali comunque la più prestigiosa è quella tra Conservatorio di Torino, TJF e la Juillard School di New York».
Oltre alla Biennale di Venezia, si può dire che anche voi vi inserite a pieno titolo in quella grande offerta che il Nord-Italia sta dando simultaneamente ai visitatori dell’EXPO, tra Salone del Libro, TJF e ostensione della Sindone?
«Chiaramente, sì. Pensa che l’assessorato ha voluto spostare il festival dalla fine di aprile alla fine di maggio proprio per incontrare il pubblico dell’EXPO. Ricordiamo che Torino dista solo 40 minuti dalla sede di Rho/Milano. Si può decidere quindi di fare tranquillamente la gita in giornata. Per quanto riguarda il rapporto con gli eventi legati all’ostensione della Sindone c’è il bellissimo concerto di James Newton: La Passione secondo Matteo».
Cambiando ora completamente argomento e parafrasando la famosa canzone di Paolo Conte, secondo te c’è ancora qualche verità nell’affermare che “le donne odiano il jazz”?
«Guardandomi attorno, se prima era un mestiere appannaggio degli uomini, oggi, nonostante una maggioranza ancora maschile, le donne sono in primissimo piano su tutto ciò che riguarda per esempio la gestione, l’organizzazione e quindi la riuscita dei progetti più complessi. Anche in qualità di musiciste la questione praticamente non si pone, ma certo si può fare sempre meglio. Ti faccio un esempio di cui stavo casualmente parlando poco fa con un amico: Marcella Carboni, arpista, jazzista, suonerà con Braxton e in uno spazio in solo nella sezione Arte Alle Corti, è una musicista interessante, impegnata con uno strumento atipico in linguaggi molto diversi».
Concludiamo doverosamente con un riferimento alla nomina di Matera a capitale europea della Cultura. Matera senz’altro, per voi “vecchi maestri” della scena jazzistica italiana è spesso stata tenuta in grande considerazione come un’outsider molto viva, per usare un gergo calcistico, una provinciale di lusso. Cosa ne pensi di questo primo punto di arrivo di questa “rinascita” partita dai lontani anni ’70 e cosa pensi si debba fare ancora?
«Ti premetto, forse lo sai, che io ho origini lucane, materane per la precisione. Mio nonno materno è materano, quindi vi sono legato in modo viscerale. La notizia della nomina mi riempie di una gioia enorme. Penso che possa essere una opportunità per tutta la Basilicata. Allo stesso tempo, lo dico da lontano, senza conoscere nel dettaglio la situazione – quindi può darsi che dica una stupidaggine – forse la cosa che manca ancora alla Basilicata, rispetto per esempio alla Puglia, è quella, come si dice in un’espressione abusata, di fare rete. Cioè la sensazione è che le attività che si svolgono in Basilicata, per quanto buone, rimangano ancora confinate lì. Non sono né ancora adeguatamente comunicate all’esterno né tantomeno ci sia un’attività di scambio per esempio con altri festival jazzistici. Di scambio, di rete, di collaborazione con altre realtà forti in Italia. Io, persona di matrice culturale e affettiva meridionale ma che lavora nel centro nord, per esempio, non vedrei l’ora di collaborare con una realtà così ricca di suggestioni culturali».
E’ un’autocandidatura?
(ridiamo)
«No, non mi auto-candido. Ma se qualcuno mi chiama, volentieri…»
A questo punto posso strapparti la promessa che nel prossimo futuro si cominci a lavorare perché il Torino Jazz Festival e le realtà simili in Basilicata, come ad esempio il Gezziamoci, per citare il più antico, possano fare qualcosa insieme? Vuoi essere tu il motore e il mentore di questo filo?
«Certo. E’ una suggestione a cui non avevo pensato e che accolgo volentieri. Anzi, prendo pure un appunto, così non va persa…»

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