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POTENZA – La Corte d’appello di Potenza ha confermato la condanna a 16 anni di reclusione (con lo sconto di pena di un terzo per la scelta del rito abbreviato, in primo grado) per il 25enne Antonio Cassotta, figlio del più noto boss di Melfi, Marco Ugo, trucidato a luglio del 2007.

La Corte, presieduta da Pasquale Materi, si è pronunciata nello stesso modo anche nei confronti di tre collaboratori di giustizia, respingendo i ricorsi presentati dai loro difensori. In particolare Alessandro D’Amato (47) e Saverio Loconsolo (39), condannati a 5 anni e 4 mesi, e il fratello del primo, Dario (35) condannato a 6 anni e 8 mesi.

L’inchiesta è quella per cui Antonio Cassotta era già finito in carcere a ottobre del 2014, sugli affari “stupefacenti” delle nuove leve della costola melfitana dei vecchi “basilischi” e i pignolesi del clan Riviezzi. Un’asse criminale ricostituito, come agli inizi degli anni ‘90 quando avrebbero messo a segno rapine le rapine nelle gioiellerie di mezza Basilicata.

L’accusa è di aver messo in piedi nel Melfese una consolidata rete di spaccio di stupefacenti, con una precisa suddivisione del territorio e l’utilizzo di persone per la vendita diretta della droga, che in alcuni casi usavano anche esercizi pubblici come «deposito» e locali per lo scambio di cocaina, hascisc e marijuana.

Assieme a Cassotta erano finiti in carcere Giuseppe Caggiano, Fabio Irenze e Lorenzo Sapio. Mentre per Vincenzo Donadio, Antonio Cardone, Giovanni Battista Ardoino, Sabino Sapio e Teodoro Gabriele Barbetta il gip aveva disposto gli arresti domiciliari. Per loro, come per altre 47 persone, è tuttora in corso il processo di primo grado, col rito ordinario, davanti al collegio del Tribunale di Potenza. Con accuse che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, spaccio, estorsione e favoreggiamento.

La droga veniva acquistata in diverse grandi «piazze» nelle regioni limitrofe, tra Campania, Puglia e Basilicata, e poi distribuita agli spacciatori locali dal vertice dell’organizzazione. Ma nel registro degli indagati sono finiti anche il titolare del bar Polo Nord di Melfi (Miguel Pastore) e uno dei gestori del Marley pub di Rionero, Patrizia Mascolo, accusati di aver fatto da intermediari in alcune cessioni di cocaina.

Le indagini sono cominciate nel 2012, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti, poi si è scoperto che il giro di cocaina lungo l’asse Melfi-Pignola era ancora attivo e una parte dei proventi andava alle famiglie dei detenuti. Ma non sono mancati «screzi» tra i due gruppi sulla suddivisione degli introiti da destinare a questo scopo, tant’è che il gip parlava dell’esigenza dei giovani Cassotta «di affrancarsi dal gruppo dei pignolesi (definiti “pagliacci”) ritenuti non affidabli per instaurare un rapporto diretto con esponenti della malavita calabrese».

Anche l’altro canale già attivato, Lorenzo Sapio, non bastava per soddisfare le mire del giovane Cassotta.

Ma sempre con l’autorizzazione dello zio, Massimo Cassotta, considerato il nuovo capo del clan anche se da tempo detenuto.

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